Ho letto il libro di Martina Fuga Lo zaino di Emma (Mondadori, 2014) mentre ero in ospedale, alle prese con le cure per eliminare i danni di un’embolia polmonare. Quel libro mi ha fatto compagnia e mi ha rasserenato, perché contiene tutto quello che mi piacerebbe venisse raccontato, con forza, semplicità e bravura, da una mamma di una bambina con disabilità.
Conosco Martina per varie ragioni: è amica di Massimiliano Verga, autore di Zigulì, la mia vita dolceamara con un figlio disabile, di cui tanto si è parlato a suo tempo anche su queste pagine e che di recente ha pubblicato Un gettone di libertà; ma è anche moglie di Paolo Orlandoni, portiere bravo quanto modesto della mia Inter. E poi Martina mi ha chiesto tempo fa di condividere il suo impegno con le famiglie dell’Associazione PianetaDown, che ha già prodotto il bel racconto a più voci Come pinguini nel deserto. C’erano dunque tutte le premesse perché io fossi prevenuto, troppo ben disposto e dunque incline a una valutazione da amico, non consona a un’opera che viene pubblicata da un grande editore (una presentazione è in programma proprio oggi, 4 novembre, a Milano, alle 18.30 nel megastore di Piazza Duomo). E invece no.
Anno dopo anno Martina ci guida in un racconto appassionante, quello della vita di Emma, una bambina con sindrome di Down, seconda di tre figli. Non c’è indulgenza, non c’è solo luce, non c’è solo dolore. C’è la realtà della vita, che ti pone all’improvviso di fronte a un destino non previsto (in questo caso persino volutamente: Martina non ha voluto esami durante la gravidanza).
Ci sono dunque i sensi di colpa, che in parte sono all’origine di questa scrittura carsica, che viene da lontano, da grumi consolidati di pensiero e di amore, di paura e di fatica. C’è l’amore enorme per questa magnifica creatura che vive il suo presente in modo strepitoso (conosco anche Emma, ed è di una simpatia travolgente). C’è un pensiero maturo sull’inclusione sociale, sulla scuola, sui compagni, sulle famiglie, sui servizi sociali, sulla burocrazia.
Capitoli brevi e ben scritti (ecco, non sempre i libri che provengono da storie vere di disabilità hanno anche il pregio della qualità letteraria) ti accompagnano senza moralismi e senza una verità da imporre, e neppure un merito speciale da vantare, quasi un “eroismo” (come troppo spesso si abbina, nella comunicazione, al ruolo dei genitori di bambini con disabilità).
Martina ce la fa a non cadere nella trappola, e alterna le luci e le ombre, le speranze e le delusioni. Coglie l’attimo e lo condivide, usa l’ironia (splendido il capitolo con le «dieci cose da non dire alla mamma di un bambino con sindrome di Down». Un esempio? «Siete una bella famiglia, il Signore vi ha scelto»…).
E poi i siblings, i fratelli, che Martina osserva nelle loro relazioni reciproche, in anni decisivi come sono quelli dell’infanzia. Il futuro è una nebulosa al momento indecifrabile, e quello zaino rende bene l’idea del fardello in più che Emma avrà sempre nella sua vita.
Martina Fuga, verso la fine, cita Haruki Murakami: «Scrivere un libro è un po’ come correre una maratona, la motivazione in sostanza è della stessa natura: uno stimolo interiore silenzioso e preciso, che non cerca conferma in un giudizio esterno». Già, perché Martina è anche una runner, e la maratona la corre per davvero.