Nei Paesi europei il rivoluzionario processo di cambiamento culturale innescato dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità procede a stento. Leggi differenti, crisi economica, disinteresse generalizzato: su tutto regna sovrana la mancanza della volontà di liberare le scelte delle persone disabili su come, dove, quando e con chi vogliono vivere in modo indipendente ed essere considerate cittadini con pari diritti e opportunità.
Sulla carta e nelle buone intenzioni è in atto un nuovo processo politico per frenare il ricorso all’istituzionalizzazione e favorire l’inclusione; nelle pratiche reali, tuttavia, ciò si sviluppa con interpretazioni e direttive pericolosamente disomogenee. Persiste oltremodo l’obsoleto approccio di “presa in carico e di cura”, che indirizza gli interventi assistenziali verso servizi residenziali fortemente limitanti l’indipendenza, l’autonomia e l’inclusione. Residenze che nei casi peggiori mostrano il crudele volto delle istituzioni totali, dove la persona subisce un processo difficilmente reversibile di alienazione, che diviene reificazione, infarcita di violenze morali e fisiche, come più volte ci mostrano le cronache.
In Italia, ove siamo tristemente famosi per la libera esposizione dei regolamenti mirata al proprio beneficio – soprattutto nell’“industria della disabilità” e grazie al “passaporto” del Titolo V della Costituzione – il “gioco” è ancora più comodo. Ad esempio, nella recente interpretazione del “Dopo di noi” è evidente la criticabile tendenza di continuare a formare i gruppi di persone con disabilità nelle case famiglia o in appartamenti, in qualche modo sorvegliati o peggio, come in alcuni Paesi confinanti, costretti a compilare verbali per uscire qualche ora e indicando il motivo e i tempi di rientro.
Sull’articolo 19 della Convenzione ONU [“Vita indipendente ed inclusione nella società”, N.d.R.] è in atto nel nostro territorio un’ennesima “sperimentazione” in materia di vita indipendente: un bando ministeriale che si propone l’obiettivo di realizzare linee guida nazionali in relazione al Programma d’Azione Biennale [“Programma d’Azione Biennale per la Promozione dei Diritti e l’Integrazione delle Persone con Disabilità, varato dall’Osservatorio sulla Condizione delle Persone con Disabilità”, N.d.R.]. Dall’analisi delle progettazioni regionali sono emerse le già temute storture interpretative, che direzionano inopportunamente gran parte delle esigue risorse disponibili a soggetti erogatori di servizi, variabili non ben chiare di spesa, Istituzioni pubbliche e quant’altro.
Solo in piccola parte esse sono davvero dirette alle persone con disabilità, il principio essenziale opportunamente indicato da quello stesso Programma d’Azione.
Ma i fraintendimenti che minano il diritto di scelta e la visione olistica ben più ampia di quella medica e curativa non appartengono solo all’ambiente governativo o a quelli dei “non addetti ai lavori”.
Il Comitato 16 Novembre (Associazione Malati SLA e Malattie Altamente Invalidanti), con le aggressive proteste di piazza e le ultime concertazioni con il Governo, ha fortemente contribuito, insieme all’azione più politica della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), al ripristino – non ancora nero su bianco – del già esile Fondo per le Non Autosufficienze, e al blocco dell’annunciata sforbiciata di quasi un terzo dello stesso (il taglio di 100 milioni), prevista dal Disegno di Legge di Stabilità per il 2015.
Il Comitato, poi, è andato ben oltre la sola manifestazione, integrandola di un documento di proposta della spesa relativa a quel Fondo, con precise indicazioni per voci di riparto, sulla base di diverse intensità assistenziali e di fasce sulla compartecipazione tramite l’ISEE [Indicatore della Situazione Economica Equivalente, N.d.R.]. Un piano di intervento propedeutico e mirato secondo la lodevole politica del risparmio che si ottiene tramite interventi diretti alle famiglie e alle persone con disabilità, secondo i princìpi indicati dalla Legge 328/00 (articolo 14) e dalla Legge 162/98, e in particolare a quelli della Convenzione ONU, segnatamente sul libero diritto di scelta prescritto dall’articolo 19 della Convenzione stessa.
ENIL rappresenta un movimento che da oltre vent’anni persegue e promuove questa politica di scelta libera dell’assistenza personalizzata, di tipo indiretto e secondo la possibile autodeterminazione in tutte le sue forme, e in tal senso non può che schierarsi a favore di iniziative volte alla realizzazione dei principi mirati a quel “cambio di paradigma” tanto atteso.
Per ciò che riguarda però i progetti di vita indipendente e non solo, riteniamo sia scorretto e anche discriminante indicare categorie riferite all’alta o media intensità assistenziale, essendo queste tipologie basate esclusivamente su un modello medico prettamente funzionale, e non invece sul principio di personalizzazione inclusivo, riferito alla citata Convenzione ONU.
Un più logico approccio identifica la persona con disabilità come appartenente alla società, titolare – con la sua diversità – di diritti, competenze e necessità mirate: una combinazione delle caratteristiche funzionali, incluse le condizioni culturali, sociali, di competenza, di personalità, di scelta di vita.
Di conseguenza, i limiti imposti dalla compartecipazione alla spesa secondo definite fasce dell’ISEE, sono in totale contrasto con la reale aspettativa di vita a casa propria e alla realizzazione del progetto di inclusione.
In una definizione realistica, quali sono i costi effettivi che una famiglia deve affrontare per essere di supporto a una persona disabile non autosufficiente nell’espletamento delle funzioni vitali, assicurandone il progresso delle potenzialità individuali per l’inclusione e la partecipazione alla vita adulta della comunità? E per una persona disabile in grado di autodeterminarsi che deve staccarsi dalla famiglia con l’aiuto di assistenti personali, per crearsene una propria e vivere in modo indipendente, con un percorso di abilitazione sociale e lavorativa, di inserimento e partecipazione? Un ISEE che considera come redditi l’indennità di accompagnamento, la rendita risarcitoria per infortunio, la casa principale di abitazione e gli stessi finanziamenti per l’esercizio delle libertà fondamentali, come può liberare il diritto alla vita e all’inclusione, fissando il tetto di 15.000 euro annui come limite per ricevere quelle stesse prestazioni? Come si concilia con i princìpi di solidarietà della nostra Costituzione, a fronte del nuovo cosiddetto “bonus bebè” che fissa il tetto ISEE a 90.000 euro a famiglia? Quanto si spende per vivere normalmente nel proprio domicilio, per il cibo, il riscaldamento, l’acqua, i trasporti realmente accessibili solo in poche città, il telefono, i rifiuti, l’affitto o per chi ha la fortuna di possedere una casa di proprietà grazie alle fatiche della famiglia? Quali ulteriori costi affronta una persona in carrozzina elettronica per vivere in un appartamento grande a sufficienza per garantire l’accessibilità e ospitare uno o più assistenti personali? E la retribuzione di questi ultimi giacente sul proprio conto corrente, comprendente il TFR accantonato, la tredicesima mensilità e le ferie, che diventano cumulo innalzando proprio l’ISEE?
Qui è utile anche riportare i numerosi studi sui veri costi della disabilità prodotti dal CENSIS, che cita la spesa per le prestazioni di protezione sociale per la disabilità pari a 437 euro pro-capite l’anno o ai dati espressi in uno studio europeo (DECLOC, London School of Economics, 2006), che indicano in 2.000 euro alla settimana (oltre 100.000 euro all’anno) il costo del sostegno nelle comunità per le persone con disturbi comportamentali e autistici.
Vogliamo capitalizzare l’enorme mole del lavoro di cura prestato dalle famiglie, che in termini di costi diretti raggiunge i 10 miliardi di euro all’anno (si veda a tal proposito Badare non basta. Il lavoro di cura: attori, progetti e politiche, a cura di S. Pasquinelli e G. Rusmini, Roma, Ediesse, 2013), per continuare con i costi delle RSD [Residenze Sanitarie Disabili, N.d.R.], che arrivano anche a 7.000 euro al mese per una tetraplegia motoria (si veda su questo Disabili, come sprecare risorse negare il diritto alla ‘Vita Indipendente’, in «Il Fatto Quotidiano», 30 ottobre 2012), ormai noti a tutto il Paese e confrontati in più di un’occasione con quelli dell’assistenza in forma indiretta, rendicontata e che crea posti di lavoro.
Potremmo continuare ancora con tanti esempi, ma preferiamo rimandare l’approfondimento di pochi giorni, quando verrà presentata la ricerca sulla compartecipazione ai costi di assistenza, opera di Raffaello Belli e frutto della collaborazione tra il CNR ed ENIL Italia.
Invitiamo quindi gli amici del Comitato 16 Novembre – ma anche tutte le Associazioni e le persone interessate di ogni Regione, Ambito, Comune – a intervenire presso gli Amministratori Delegati ai Servizi Sociali per una corretta progettazione dei piani personalizzati di vita indipendente relativi al bando in corso di “sperimentazione” del Ministero delle Politiche Sociali, impedendo inoltre che il diritto di scelta del modello sociale inclusivo indicato dall’articolo 19 della Convenzione ONU sia condizionato inesorabilmente dall’imposizione della compartecipazione tramite l’ISEE. Tale vincolo, infatti, rappresenta una vera barriera sociale utilizzata ad hoc, per stroncare sul nascere le intenzioni della platea dei richiedenti, anziché promuoverne la piena esigibilità.
Non può essere criterio esclusivo di eleggibilità basato su categorie e non dev’essere applicato alle persone con disabilità, soprattutto per la condizione di non autosufficienza e per coloro che scelgono percorsi di inclusione. Dobbiamo difendere e fare adottare il modello di progettazione personalizzata orientata verso la graduazione della condizione di disabilità, che tenga conto dell’insieme dei fattori ambientali necessario alla garanzia dei diritti e dei funzionamenti di base: salute, cura di sé, scuola/formazione, lavoro e inclusione sociale. Una battaglia culturale e di buon senso in direzione di un welfare davvero inclusivo e utile alla “spending review”.
ENIL Italia è presente sui territori regionali tramite coordinamenti di persone pronte a collaborare per evitare innanzitutto il naufragio delle buone prassi attive in alcune Regioni, frutto di un lavoro decennale, che vanno invece promosse, sviluppate e applicate come standard nazionale. Un processo inarrestabile, da intendere come movimento in progress, per la realizzazione di quel diritto di scelta che deve diventare davvero esigibile e soddisfare finalmente quel principio del Nulla su di Noi senza di Noi.