La Corte di Cassazione ha pronunciato a Sezioni Unite, il 25 novembre scorso, la Sentenza n. 25011 [se ne legga già nel nostro giornale, N.d.R.], con la quale ha affermato che assegnare un numero di ore di sostegno inferiore a quelle indicate nel PEI [Piano Educativo Individualizzato, N.d.R.] di un alunno con disabilità costituisce discriminazione ai suoi danni, ai sensi della Legge 67/06 (Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni).
In sostanza, la Corte ha respinto l’azione promossa del Ministero dell’Istruzione contro le decisioni conformi del Tribunale del Lavoro e della Corte d’Appello di Trieste, che avevano appunto accolto un ricorso per discriminazione, proposto per una riduzione di ore di sostegno.
Di fronte a un’Avvocatura dello Stato che rivolgendosi alla Cassazione aveva tentato di far dichiarare inammissibile il ricorso, per difetto di competenza del Giudice Civile, bene ha fatto la Suprema Corte a riaffermare invece la competenza del Tribunale Civile in materia di discriminazione, in un caso in cui si chiedeva appunto l’applicazione della Legge 67/06. Infatti, competente per legge a giudicare su tali cause è il Tribunale Civile, mentre per gli ordinari ricorsi riguardanti la violazione della normativa sull’assegnazione di ore di sostegno, è ormai competente il Giudice Amministrativo.
La Sentenza, inoltre, è pure degna di interesse anche perché riafferma il diritto alle ore di sostegno – ormai costantemente sottolineato anche dalla Corte Costituzionale, da ultimo con la nota Sentenza 80/10 – sulla base delle «effettive esigenze», secondo quanto previsto dall’ l’articolo 1, comma 605, lettera b della Legge 296/06.
E ancora, il provvedimento sottolinea l’importanza del Piano Educativo Individualizzato (PEI), nel quale il numero delle ore dev’essere richiesto come elemento indispensabile per l’esigibilità indiscussa del diritto dell’alunno a quello stesso numero di ore. Così si esprime esattamente la Sentenza: «Dal formante legislativo si traggono, infatti, l’assoluta centralità del piano educativo individualizzato, inteso come strumento rivolto a consentire l’elaborazione di una scelta condivisa, frutto anche del confronto tra genitori dell’alunno disabile e amministrazione; e, inoltre, l’immediato e doveroso collegamento, in presenza di specifiche tipologie di handicap, tra le necessità prospettate dal piano e il momento dell’assegnazione o della provvista dell’insegnante di sostegno».
Fondamentale appare qui l’affermazione secondo cui il PEI è frutto del confronto tra scuola e famiglia e l’altra secondo cui c’è un collegamento diretto e inscindibile tra le richieste contenute nel PEI e quelle risorse che debbono essere fornite sia dall’Ufficio Scolastico Regionale per le ore di sostegno, ma anche quelle a carico degli Enti Locali, tenuto conto della «specificità della disabilità».
Infine, alla luce dei princìpi fissati dalla Corte Costituzionale con la citata Sentenza 80/10, la Cassazione ribadisce il divieto per l’Amministrazione di discrezionalità nell’assegnare le ore di sostegno, specie se motivato dai tagli alla spesa pubblica, così come segue: «In conclusione, dal quadro legislativo di riferimento si evince che una volta che il piano educativo individualizzato, elaborato con il concorso determinante di insegnanti della scuola di accoglienza e di operatori della sanità pubblica, abbia prospettato il numero di ore necessarie per il sostegno scolastico dell’alunno che versa in situazione di handicap particolarmente grave, l’amministrazione scolastica è priva di un potere discrezionale, espressione di autonomia organizzativa e didattica, capace di rimodulare o di sacrificare in via autoritativa, in ragione della scarsità delle risorse disponibili per il servizio, la misura di quel supporto integrativo così come individuato dal piano, ma ha il dovere di assicurare l’assegnazione in favore dell’alunno, del personale docente specializzato anche ricorrendo – se del caso, là dove la specifica situazione di disabilità del bambino richieda interventi di sostegno continuativi e più intensi – all’attivazione di un posto di sostegn in deroga al rapporto insegnanti/alunni, per rendere possibile la fruizione effettiva del diritto, costituzionalmente protetto, dell’alunno disabile all’istruzione, all’integrazione sociale e alla crescita in un ambiente favorevole allo sviluppo della sua personalità e delle sue attitudini».
Si apprezza quindi la logica conclusione della Cassazione circa la sussistenza della discriminazione, così come segue: «L’omissione o le insufficienze nell’apprestamento, da parte dell’amministrazione scolastica, di quella attività doverosa si risolvono in una sostanziale contrazione del diritto fondamentale del disabile all’attivazione, in suo favore, di un intervento corrispondente alle specifiche esigenze rilevate, condizione imprescindibile per realizzare il diritto ad avere pari opportunità nella fruizione del servizio scolastico […]».
Ciò che invece non si può condividere è la motivazione che segue: «l’una [l’omissione] e le altre [le insufficienze nell’apprezzamento, da parte dell’amministrazione, di tale attività doverosa] sono pertanto suscettibili di concretizzare, ove non accompagnate da una corrispondente contrazione dell’offerta formativa riservata agli altri alunni normodotati, una discriminazione indiretta, vietata dall’art. 2 della legge N° 67 del 2006 […]».
Qui, infatti, la motivazione «ove non accompagnate da una corrispondente contrazione dell’offerta formativa riservata agli altri alunni normodotati» ribadisce e conferma quanto già espresso a suo tempo dal Tribunale del Lavoro di Milano su numerosi ricorsi proposti dalla LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità), componente lombarda della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) [se ne legga ad esempio qui, N.d.R.], che per la prima volta in Italia prospettò la richiesta di deroghe sulla base della legge antidiscriminatoria 67/06. E tuttavia, così come allora espressi le mie perplessità circa tale motivazione, le ribadisco adesso ancor più preoccupato. Infatti, in tale brevissima ma rovinosa motivazione, si legittima un principio totalmente contrario alla logica dell’inclusione, come l’abbiamo realizzata in Italia sin dalla fine degli Anni Sessanta e cioè che le ore di sostegno sono esclusivamente rivolte agli alunni con disabilità, mentre quelle curricolari sono esclusivamente rivolte ai compagni senza disabilità.
Questo principio invalida radicalmente tutta la cultura inclusiva italiana, che è stata sancita in Italia dall’articolo 13, comma 6 della Legge Quadro 104/92, sulla contitolarità della classe da parte del docente per il sostegno, che deve sostenere i colleghi curricolari nel delicato compito – di loro competenza primaria – di includere l’alunno con disabilità nel gruppo dei compagni e sminuisce, sino a renderla insignificante, l’espressione contenuta nell’articolo 19, comma 11 della Legge 111/11, secondo cui «la scuola provvede ad assicurare la necessaria azione didattica e di integrazione per i singoli alunni disabili, usufruendo tanto dei docenti di sostegno che dei docenti di classe. A tale fine, nell’ambito delle risorse assegnate per la formazione del personale docente, viene data priorità agli interventi di formazione di tutto il personale docente sulle modalità di integrazione degli alunni disabili».
Concordo dunque con il plauso a questa Sentenza della Corte di Cassazione, innalzato dall’amica Nina Daita della CGIL [se ne legga anche nel nostro giornale, N.d.R.] e dall’amico avvocato Francesco Marcellino, sull’importanza del dispositivo della sentenza, ma non posso associarmi a loro, senza evidenziare la pericolosità della motivazione.
Per questo ritengo che tale Sentenza non vada esaltata, a meno appunto di non evidenziarne contemporaneamente i gravi rischi contenuti nel breve rigo di motivazione.
Già vicepresidente nazionale della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e responsabile del Settore Legale dell’Osservatorio Scolastico dell’AIPD (Associazione Italiana Persone Down).
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