Scrivo quando sta finendo il 3 dicembre 2014, quindi nella Giornata delle Persone con Disabilità, che in qualche modo è la festa mia e di mio figlio. Oggi di chiacchiere se ne sono fatte tante ed è stato “costretto” a parlare di disabilità lo stesso presidente del Consiglio Renzi, cui da queste pagine ho indirizzato qualche settimana fa una lunga lettera, finita, molto probabilmente, in qualche cestino di PC, senza che lui nemmeno l’abbia letta. Chissà se l’ha mai avuta tra le mani, mi chiedo, e rivolgo un pensiero all’ignoto cestinatore, sperando che almeno lui, prima di buttarla, l’abbia letta, magari esclamando un manzoniano: «Chi è costui?» (in questo caso, costei?).
Dicevo dunque che di chiacchiere se ne sono fatte tante, e voglio farne qualcuna anch’io, perché in questi giorni ho intravisto un pericolo nell’informazione sulla disabilità, e in particolar modo sull’autismo.
È una tentazione che tutti noi, genitori di autistici, abbiamo, quella cioè di attribuire alla definizione e alle sue terapie un’importanza che a volte trascende da nostro figlio. Ci rassicura, infatti, pensare che in una persona con autismo – verbale o non verbale che sia – il gesto impulsivo, di rabbia contro di noi, sia legato all’autismo e non a una ribellione adolescenziale. E ci rassicura pensare che la terapia adeguata ci permetta di avere sempre o quasi sempre in mano la situazione.
Si tratta appunto di un pensiero rassicurante, ma molto pericoloso, come lo è anche credere che la nostra esperienza – sia pure suffragata da esperti – ci metta in mano la verità assoluta, magari travestita da impegno scientifico e informativo. Così però non è, e bisogna fare molta attenzione a non usare le “armi” di una maggiore fama “contro gli altri”, quelli che hanno la loro verità, ma che non sempre hanno a disposizione gli organi d’informazione per poterla divulgare.
È dunque con tutte le cautele necessarie che mi permetto, sommessamente, di ricordare a Gianluca Nicoletti [giornalista e scrittore, padre di un giovane con autismo, autore dei libri “Una notte ho sognato che parlavi” e “Alla fine qualcosa ci inventeremo”, N.d.R.] che le persone con sindrome di Asperger [forma di autismo cosiddetta “ad alto funzionamento”, N.d.R.] non scrivono e si laureano “forse”, ma scrivono e si laureano senza forse.
Al di là dei grandi del passato e restando ai nostri tempi, ricordo ad esempio una Temple Grandin, laureata e scrittrice [Temple Grandin è una celebre zoologa americana con autismo, famosa per avere inventato la cosiddetta “macchina degli abbracci” e per avere rivoluzionato le pratiche per il trattamento degli animali negli allevamenti di bestiame, N.d.R.]. I suoi libri sono acquistabili e leggibili e permetterebbero di cancellare un forse che è perlomeno ingeneroso.
Sempre poi dallo stesso discorso affrontato da Nicoletti, che dice di volere «sfatare i miti sull’autismo» – compito sicuramente monumentale – comprendo la necessità di usare termini ad effetto, ma definire il proprio figlio «quasi un vampiro», credo sia una frase irrispettosa nei confronti di un ragazzo.
E, Nicoletti, io non mi angoscerei troppo per le scarpe: al giorno d’oggi esistono quelle con il velcro, comprale a tuo figlio e cerca di metterti in ascolto, che parli o meno, su quello che può darti e non solo su quello che tu puoi dare a lui [Gianluca Nicoletti si è espresso tra l’altro così: «C’è l’autismo ad alto o basso funzionamento, c’è l’Asperger di chi, forse, riesce in effetti anche a scrivere libri, o a laurearsi, ma da un ragazzo autistico in carne e ossa, come Tommy, mio figlio, posso aspettarmi forse che riesca ad allacciarsi le scarpe e sarà per me un grande risultato. Ma non potrei lasciarlo uscire da solo neanche qui fuori», N.d.R.].
È qui che intravvedo la “tentazione del pensiero unico”, ovvero: “io sono il genitore dell’autistico”, “io sono in qualche modo l’eroe”, insieme a terapisti e medici: lui, il ragazzo, l’adulto autistico, è oggetto delle nostre cure, mai soggetto che può darmi qualcosa, come autistico, ma, soprattutto, come essere umano.
È difficile sfuggire a questa zona di comfort che ci permette di non avere mai torto; certo, vi contribuiscono anche gli altri, in buona o in malafede, quando ci danno dei “poverini” o ci dicono: «Ma lei come è forte, e come è stata brava con suo figlio!». Ma io questo discorso voglio completamente ribaltarlo e affermare che è stato mio figlio ad essere bravo con me!
È stato paziente quando gli ho spiegato regole che lui non comprende, ma che deve seguire, come stare composto a tavola durante le feste, salutare anche chi gli sta antipatico, essere gentile con tutti ed educato anche quando è particolarmente stanco.
È stato paziente perché va nella scuola che è di tutti solo per modo di dire, e anche quando si è sentito isolato, e si è sentito triste, mi ha creduto quando gli ho detto che è la vita, ma che non deve arrendersi.
È stato paziente perché mi vorrebbe ancor di più nel suo mondo, ma io ho anche il mio da portare avanti e aspetta – come ora – che io chiuda il computer che è in camera sua e mi metta ad ascoltare i suoi filmati e le sue canzoni.
È un figlio e una persona, che riceve, ma che anche dà, non un “vampiro” che mi succhia energia e basta, non “la mia galera”, ma mio figlio e questo vale per me, ma non è detto valga per gli altri, visto che le persone con autismo non sono tutte uguali (le persone non sono tutte uguali), i momenti non sono tutti uguali. Ma pensare sempre e comunque a mio figlio, ai nostri figli autistici, solo come autistici, ci toglie il piacere, momentaneo quanto si vuole, di averli come figli, e loro il piacere di dimostrarci di volerci come genitori.
Insomma qualche volta un “vaffa” è il “vaffa” del diciassettenne e non dell’autistico e si può dire “vaffa” in tanti modi e non solo con le parole…
Sento poi puzza di pensiero unico, di ottica unica, anche quando ci si scaglia a priori contro le cosiddette “terapie alternative”, sempre giudicate come “cialtrone”, sempre attribuite a ignoranza o a vana speranza dei genitori. E qui bisogna chiedersi: ma cosa davvero aiuta o meno? Se una terapia non accreditata contribuisce alla serenità di un rapporto genitori/figlio, questo è sbagliato? E se una persona autistica, seguendo una dieta particolare, è più felice perché tale dieta è di suo gusto, è una forma di “ignoranza “ dei genitori assecondarlo?
Cosa è giusto o è sbagliato negli autismi, che sono così variegati da far pensare che sia una tra le condizioni neurologiche più complesse di questo secolo?
Io, per quanto mi riguarda, quasi a diciassette anni dalla nascita di mio figlio, ho più dubbi che certezze, non mi sento di sfatare alcun mito e – se scrivo di mio figlio – lo faccio cercando di mostrare entrambi i lati della nostra relazione, che non è meno complessa di quella di una madre con un normale figlio adolescente.
E ora devo chiudere, altrimenti mio figlio comincerà a chiamarmi “mamma satana” e per chi non la conoscesse, vada a cercarsi in rete iPantellas*: alcune delle loro parodie, infatti, le ritengo spassosissime e fanno anche pensare, autistici o meno che siate!
*iPantellas è stato un programma televisivo di Mediaset, formato da videostorie umoristiche del duo di amici iPantellas (Daniel Marangiolo e Jacopo Mainati).