Sono settimane a dir poco travagliate, quelle che si vivono nelle Marche, rispetto alla sorte dei servizi sociosanitari rivolti a persone con disabilità, anziani non autosufficienti, persone con demenza e soggetti con problematiche psichiatriche, dopo le ultime politiche attuate dalla Regione che, come denunciato a più riprese anche su queste pagine, secondo le varie organizzazioni componenti il CAT Marche (Comitato Associazioni Tutela) e la Campagna Trasparenza e diritti, rischiano, specie dopo il recente accordo fissato tra la Regione stessa e gli enti gestori, di vedere «circa 15.000 persone che dovranno sopportare maggiori oneri, con una minore qualità dei servizi».
A parlare oggi, sono alcuni responsabili dei CoSER, le Comunità Socio Educative Riabilitative per persone con disabilità delle Marche. Questa è la loro lettera aperta, direttamente indirizzata a tutti i principali referenti istituzionali della Regione.
«Vi scriviamo come referenti e responsabili di struttura delle Comunità Socio Educative Riabilitative (CoSER) per persone con disabilità della Regione Marche.
Siamo quelli che da circa quindici anni hanno preso in mano – su vostra specifica indicazione – la vita di ormai più di trecento uomini e donne in condizione di disabilità complessa, privi di altre opportunità di assistenza e spesso provenienti da istituti. Oggi queste persone vivono in quelle che la Legge Regionale 20/02 [“Disciplina in materia di autorizzazione e accreditamento delle strutture e dei servizi sociali a ciclo residenziale e semiresidenziale”, N.d.R.] chiama appunto CoSER. Hanno una loro camera, conducono una vita sociale, partecipano alla scelta dei cibi e vanno a fare la spesa, scelgono i loro vestiti, passano del tempo da soli in camera. Alcuni si fidanzano, altri scoprono parenti che non sapevano di avere. Viaggiano, vanno al mare, festeggiano i Santi, i Morti e il Natale con i cappelletti fatta in casa. Affrontano l’invecchiamento e la malattia.
Sono cose semplici e banali, anzi comuni: tutti ci possiamo riconoscere in quel susseguirsi di azioni quotidiane, sorprese, piccoli e grandi cambiamenti.
Sono cose comuni, ma non sono facili. Perché richiedono condizioni organizzative specifiche: spazi di vita ordinari, un gruppo non elevato di persone che vivono insieme, operatori in numero sufficiente, con professionalità specifica e con un orario che permetta di sostenere e promuovere quell’apparente banalità quotidiana, che è ricca di novità e sicurezza insieme.
Da allora non abbiamo smesso un solo secondo di lavorare per far sì che le CoSER fossero davvero tutto ciò, sapendo che le nostre normative regionali auspicavano tutto questo e lo rendevano possibile.
Volevamo e vogliamo case, abitazioni, luoghi di vita quotidiana. Ci abbiamo creduto e ci crediamo ancora. E con noi ci hanno creduto tutte le persone che ci vivono, credendo che quella fosse davvero la loro casa, una casa dove poter scegliere la propria stanza, dove essere considerati persone non intercambiabili. E ci hanno creduto e ci credono gli operatori, educatori ed OSS [Operatori Socio Sanitari, N.d.R.], che tutti i giorni sono lì a mantenere elevata la qualità dell’assistenza e della presa in carico.
Oggi, dopo le Delibere di Giunta Regionale n. 1011/13 e n. 1195/13, dobbiamo pensare che tutto questo finirà? Che sparisca, sommerso da squallide e apparenti “economie di scala”, il modello di servizio residenziale di piccole dimensioni, che le Marche per anni hanno presentato a convegni e seminari, raccogliendo complimenti e interesse?
Gli ultimi atti regionali dicono che nell’arco di tre anni le CoSER si devono trasformare in RSA [Residenze Sanitarie Assistenziali, N.d.R.]. E devono dichiararlo entro il mese di giugno del 2015, pena la perdita dell’autorizzazione e dei trasferimenti economici.
Ma è davvero così normale che una persona, solo perché “disabile”, debba vivere in una struttura con altri venti o quaranta persone? È possibile affermare, senza che nessuno si stupisca o si indigni, che le strutture da dieci persone hanno costi troppo alti, mentre una struttura da venti persone riesce ad ammortizzare meglio i costi di gestione? Non andiamo in questo modo a spostare il costo sulla qualità di vita che offriamo alle persone accolte? Non andiamo ad aumentare i costi organizzativi, la rigidità dei turni, la frammentazione del personale?
Vi poniamo queste domande, confermandovi che noi non ci rassegneremo alla sparizione di questo modello di servizi e nemmeno vogliamo chiuderci in “riserve”, magari finanziate da questa o quella donazione, mentre la nostra Regione sceglie che il bisogno di residenzialità nella nostra Regione non avrà altra risposta che l’istituto di grandi dimensioni, quello in cui l’organizzazione risponde a se stessa, al suo funzionamento adeguato, e non alle persone di cui si dovrebbe occupare.
Noi non ci stiamo, e non stiamo a guardare. Con la stessa volontà con cui abbiamo in questi anni accompagnato le persone nel loro vivere, per quanto complesso esso possa essere, e con la stessa forza, vi diciamo forte il nostro NO: no a soluzioni residenziali che prevedono più di dieci posti e no a tariffe e standard con i quali è oggettivamente impossibile gestire il servizio, se esso non aumenta la ricettività.
Vogliamo ribadire che queste non sono ingenue idee di qualche professionista con una visione utopica delle cose: nel 2009, con la Legge 18, l’Italia ha ratificato la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Essa indica la strada che gli Stati del mondo devono percorrere per garantire i diritti di uguaglianza e di inclusione sociale di tutti i cittadini con disabilità. All’articolo 19 (Vita indipendente ed inclusione nella società) recita: “Le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere”, indicazioni fatte proprie (2013) nel Programma d’Azione Biennale per la Promozione dei Diritti e l’Integrazione delle Persone con Disabilita, dove vengono assunti come princìpi guida quelli espressi proprio dal citato articolo 19 della Convenzione, superando e/o integrando la normativa vigente, con particolare attenzione: “a) al contrasto delle situazioni segreganti e delle sistemazioni non rispondenti alle scelte o alla volontà delle persone; b) alla verifica che i servizi e le strutture sociali destinate a tutta la popolazione siano messe a disposizione, su base di uguaglianza con gli altri, delle persone con disabilità e siano adattate ai loro bisogni”.
Nella stessa direzione andavano anche i princìpi espressi nella Legge 162/98, grazie alla quale, nel corso degli anni, le Regioni hanno sperimentato e favorito una progettualità volta all’assistenza indiretta, all’incentivazione della domiciliarità e, pur in modo residuale, al supporto a percorsi di autonomia personale.
Ricordiamo inoltre come la Conferenza delle Regioni, cui la Regione Marche fino a prova contraria fa parte, in un documento del 16 ottobre scorso sulle Proposte di Legge riguardanti il cosiddetto “dopo di noi”, si sia espressa inequivocabilmente a favore delle comunità familiari.
Vogliamo fare finta che tutta questa sia carta straccia? Vogliamo usare i documenti legislativi solo quando ci fanno comodo?
Non vogliamo che la vita di queste persone venga “mercificata”. Non possono essere le persone fragili a subire gli errori di altri. Hanno il diritto a vivere bene, hanno il diritto ad avere una casa, hanno il diritto a sentirsi persone, hanno il diritto a non vedere “tagliate” le loro speranze.
Infine, con la speranza che vogliate accogliere le nostre richieste, confidiamo nel vostro ascolto. Confidiamo nella vostra capacità e volontà di rivedere le Delibere 1011 e 1195 ed il quadro delle tariffe che ne consegue. Confidiamo nella vostra capacità di riconoscervi uomini capaci di costruire un welfare che dimostri di avere come riferimento prioritario il benessere delle persone».