Disabilità: cinquanta sfumature di nero seppia

di Antonio Giuseppe Malafarina*
«C’è gravità e gravità - scrive Antonio Giuseppe Malafarina -, ma non è che una gravità minore escluda a priori il bisogno di un alto grado di assistenza. Mi chiedo dunque se sia giusto stabilire gradazioni di disabilità e mi rispondo in fretta di sì, purché sia ben fatto. Oppure si dovrebbe ripensare il sistema di assistenza alla persona, concedendola a tutti nell’intera misura di cui ognuno ha bisogno. Ma non essendoci risorse...»

Persone nella semioscurità, tra cui anche una in carrozzinaIl mio certificato d’invalidità ha oltre un quarto di secolo. Consunto, giace in qualche sperduto cassetto. Non cita la gravità dell’handicap ai sensi della Legge 104/92, anche perché il 1992 doveva ancora arrivare. E non risulta lo stato di disabilità gravissima, perché nel nostro Paese non esiste una definizione esatta di questa condizione. La definizione in uso, infatti, è relegata al solo contesto del Fondo sulle Non Autosufficienze e, anche se l’uso si sta espandendo, al di fuori di questo àmbito è destituita di valore ai sensi di legge.
In pratica sono un sans papier, uno “senza documenti”, un “abusivo della disabilità gravissima”. E c’è chi è messo peggio, perché se io posso riuscire a dimostrare di appartenere all’indefinita categoria in quanto non respiro da solo, altri – che pure hanno bisogno di essere assistiti continuativamente – neppure questo. Sono persone disabili gravi, non gravissime, certo, ma non per questo troppo meno bisognose.

Se la memoria non mi tradisce, un primo senso di statale inadeguatezza sulla questione della disabilità grave/gravissima emerse qualche anno fa, quando l’allora senatore Ignazio Marino, presidente della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sull’Efficacia e l’Efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, si offrì di controllare quante persone con grave disabilità ci fossero in Italia, determinato a scoprirlo in pochi giorni. Affiorò il vuoto normativo e si chiese al Comitato 16 Novembre, allora principale attore nella lotta per l’erogazione del Fondo, di individuare una definizione calzante dell’oggetto del contendere. Il Comitato intervenne e, basandosi sulla competenza di specialisti e prendendo come fonte la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, propose che per persone con disabilità gravissima si intendessero le «persone in condizione di dipendenza vitale da assistenza continua e vigile 24 ore su 24». Poi realizzò un elenco preciso di chi poteva rientrare in questa categoria [di tutto ciò si legga ampiamente in un testo da noi pubblicato a quel tempo, N.d.R.].
A quel punto non venne varato alcun provvedimento che definisse ufficialmente tale condizione e così il problema è riemerso al momento di ripartire il citato Fondo per le Non Autosufficienze.
Cita di qua, cerca di là, la definizione ufficiale non si sa. Così, nel Decreto per la Ripartizione del Fondo si costruisce un’ampia definizione che non soddisfa.
Dunque – finalmente – la Conferenza Stato-Regioni (Repertorio Atti n. 101/CU del 5 agosto 2014) declama che per disabilità gravissima s’intende: «[…] quella delle persone in condizione di dipendenza vitale che necessitano a domicilio di assistenza continuativa e monitoraggio di carattere sociosanitario nelle 24 ore, per bisogni complessi derivanti dalle gravi condizioni psico-fisiche, con la compromissione delle funzioni respiratorie, nutrizionali, dello stato di coscienza, privi di autonomia motoria e/o comunque bisognosi di assistenza vigile da parte di terza persona per garantirne l‘integrità psico-fisica».
Attenzione, però, perché all’articolo 3 del Decreto di Assegnazione del Fondo (Decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 7 maggio 2014), si legge che questa definizione di disabilità gravissima è valida «ai soli fini del presente Decreto».

E così sia, sono un “fuorilegge”. Fuori dalla legge sul Fondo per le Non Autosufficienze, il mio status non esiste. Vivo nell’ambiguità. E mi va pure bene perché almeno parzialmente per la legge ci sono, mentre c’è chi – interpretando la summenzionata dicitura in senso strettissimo – non c’è affatto. Penso ai “colleghi di paralisi” che respirano, ad esempio, ma che se hanno sete non possono bere neanche col bicchiere sotto il naso, se qualcuno non versa loro il contenuto in bocca. E se hanno la tosse e qualcuno non interviene tosto soffocano. Quindi, “beato me che non respiro” e salute a loro che ne hanno bisogno. Non avrei mai pensato che a non respirare avrei avuto dei vantaggi!

Cinquanta sfumature di nero seppia. C’è gravità e gravità, ma non è che una gravità minore escluda a priori il bisogno di un alto grado d’assistenza. Mi chiedo se sia giusto stabilire gradazioni di disabilità. E mi rispondo in fretta di sì. Purché sia ben fatto.
Per alcuni il concetto di disabilità grave/gravissima dovrebbe sparire. Io sono favorevole alla cancellazione, se si ripensa il sistema di assistenza alla persona, concedendola a tutti nell’intera misura di cui ognuno ha bisogno. Ma non ci sono risorse. Allora è inevitabile andare incontro a chi ha più bisogno.
Dunque, nel nero seppia della disperazione dei disagi della disabilità grave e gravissima, le sfumature diventano necessarie. E allora sia l’una che l’altra vanno declamate, l’attuale definizione di handicap grave ai sensi dell’articolo 3 della Legge 104/92 è infatti “preistorica rispetto al concetto di disabilità”. Dobbiamo perciò uscire dalla clandestinità e uscendo comprendere che è giusto sostenere la disabilità gravissima, ma anche che spesso chi non è disabile gravissimo può essere soggetto ad «assistenza continuativa e monitoraggio di carattere sociosanitario nelle 24 ore». E dobbiamo aiutarlo.

Testo apparso anche in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Quei fuorilegge della disabilità grave e gravissima”). Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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