Franco, che con il suo sé giungeva a quello altrui

di Antonio Giuseppe Malafarina*
«Franco Bomprezzi - scrive Antonio Giuseppe Malafarina, ricordando alcuni tra gli innumerevoli incontri coordinati dal nostro direttore responsabile, scomparso nel dicembre scorso - era un giornalista di quelli che non si limitano a scrivere. Franco comunicava. Anche stando zitto. Lo guardavi negli occhi e capivi. Franco aveva il ritmo, i tempi giusti dell’eloquenza. Ed era un modello cui ispirarsi, per chi vuole sedersi con serietà sulla scottante poltrona del moderatore»
Franco Bomprezzi e Antonio Giuseppe Malafarina a "ReaTech Italia 2013"
Franco Bomprezzi e Antonio Giuseppe Malafarina, alla manifestazione di Milano “ReaTech Italia 2013”

Franco Bomprezzi era un giornalista di quelli che non si limitano a scrivere. Franco comunicava. Anche stando zitto. Lo guardavi negli occhi e capivi. Franco aveva il ritmo, i tempi giusti dell’eloquenza. La pausa stava al posto suo e la battuta scaturiva opportuna. Il richiamo appariva spontaneo e il cenno puntuale, discreto o sfacciato che dovesse apparire. Nel suo armamentario di bravo giornalista aveva lo spirito d’osservazione per fare la chiosa giusta. L’intuito per comprendere lo stato d’animo all’istante. L’occhio per scrutare la situazione costantemente. Era un osservatore scrupoloso. Un fuoriclasse di sicuro. Un modello. Un simbolo cui ispirarsi, una meta da raggiungere per chi vuole sedersi con serietà sulla scottante poltrona del moderatore.

Ho conosciuto Franco nel 2000, alla manifestazione HANDImatica di Bologna. Ero lì quasi allo sbaraglio per presentare il Progetto DAMA (Disabled Advanced Medical Assistance) dell’Ospedale San Paolo di Milano, per l’accoglienza delle persone con disabilità in ospedale. Nemmeno sapevo che Franco fosse disabile. Lo cercavo, senza sapere esattamente chi stessi cercando, per combinare un mio piccolo intervento durante un più ampio dibattito sull’accessibilità al web.
Ancora devo capire come si combinassero i due argomenti, ma a un certo punto trovai Franco. Qualche istante di programmazione, mi concesse qualche minuto e al momento indicato intervenni. Fui talmente rapido che lui mi elargì dell’altro tempo. Riuscì a farmi dire un mucchio di cose con lo sguardo di uno che ti stima come se ti conoscesse da una vita. Non mi dava carica, non mi serviva. Mi dava modo, che era ciò di cui avevo bisogno.

L’ultima volta che mi ha moderato è stato qualche mese fa [se ne legga anche nel nostro giornale, N.d.R.], in occasione della presentazione a Milano della Carta dei Diritti delle Persone con Disabilità in Ospedale.
Palazzo Lombardia, io arrivo un po’ in ritardo e il mio intervento è programmato, ma non è ufficialmente in scaletta. Ci guardiamo, io in platea e lui al banco dei relatori, e ci intendiamo subito. Mi presenta e dopo un po’ io attacco con un pezzo che parla di grattacieli a Milano e di bellezza. Dico chiaramente che vorrei mettere la disabilità da parte in quel mio intervento istituzionale. Franco mi lascia parlare, approva. Ma a intervento concluso mi guida a discutere di caregiver e di famiglia. Lo fa raccontando di una sua dolorosa esperienza giovanile, espediente che m’induce a non sottrarmi al dovere d’intervenire. Il suo sé per giungere a quello altrui.

Altre volte siamo stati proprio tutti e due al di là del banco. Lui a moderare, al solito, io a fare da relatore. Ricordo quando presentammo nel 2010 il libro di Myriam Altamore Profondo come il mare. Io e i miei amici disabili a una sostenuta platea nella periferia di Milano. Eravamo fra amici, perché c’erano pure Claudio Arrigoni, Minnie Luongo e qualche altro pezzo di “grande famiglia della disabilità”.
C’era quell’atmosfera di semplicità e convivialità di quando fai le cose fra chi si vuole bene e lì Franco tirò fuori la capacità di far parlare in coro le persone. Conoscendo bene ognuno di noi, fece dire a tutti la propria, come se fossimo a una cena in famiglia. A pensarci non ricordo neppure se il ruolo di moderatore quella volta spettasse a lui, fatto sta che ci guidò impartendomi come lezione che anche se conosci i cavalli non puoi lasciarli correre a briglie sciolte, a te spetta condurli con l’impatto più naturale possibile. Franco, nell’era dei litigiosi talk-show, rinnovava la “lezione di donna Letizia”.

Altra profusione di stile alla presentazione del libro di Minnie Luongo e mio, nel 2007 [“Intervista col disabile. Vademecum fra cime e crepacci della disabilità”, N.d.R.], in uno dei tanti siti della Provincia sparsi per Milano. Sala prestigiosa, moderatamente piena. Con noi il Consigliere Provinciale con Delega alla Partecipazione e alla Tutela dei Diritti delle Persone Diversamente Abili e Antonella Ferrari, la splendida Antonella Ferrari, che basterebbe da sola a riempire la scena. Bene, Franco coglie che quella sera siamo tutti piuttosto in vena. Ne nasce un piccolo show sulla disabilità. Riusciamo a far sorridere. Franco, libero sulla ferma carrozzina, sembra muoversi come un giullare fra i presenti sul palco. Sa cogliere gli umori, pizzicare le corde giuste, tastare le condizioni del pubblico e scegliere il linguaggio più efficace. È un magistrale conduttore d’orchestra.

Ho visto Franco moderare docenti, politici, gente comune, qualche volta anche poco avvezza alla comunicazione. Con lui ogni incontro era una certezza. C’era la sicurezza che sarebbe riuscito. Si sapeva che la professionalità avrebbe regnato, facendo circolare le informazioni, stimolando le riflessioni, provocando la nascita di nuovi pensieri. E senza che il sonno prendesse il sopravvento, qualità non trascurabile per chi frequenta questo genere di raduni privi di paillettes e champagne.
Bella lezione, maestro! Un mix di talento, preparazione ed esperienza. Ineguagliabile, sicuramente. Da acquisire e riprodurre, certamente. Come piacerebbe a te. Grazie, Franco!

Testo apparso anche in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Franco, maestro della moderazione”). Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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