Nei giorni scorsi abbiamo festeggiato il diciassettesimo compleanno di Giovanni [il figlio con autismo di chi firma il presente testo, N.d.R.]. È stata una festa piacevole, per l’ultimo anno in cui ci si potrà fare delle illusioni che mio figlio vada a scuola, che stiano seguendo un progetto, che dovrà ancora lavorare, ma che diventerà un adulto in grado di dare il proprio contributo alla società e di essere inserito nel tessuto sociale…
Tutte illusioni, destinate a infrangersi contro il “grande muro”: l’entrata nell’età adulta, quella in cui, tanto per capirsi, ti dicono senza tanti complimenti che devi iniziare a cercarti un Centro Diurno. Alla scuola di Giovanni hanno già cominciato a dirlo, usando le risibili parole: «Bisogna che cominci a pensare al suo futuro». E lì, per una frazione di secondo, ti illudi che ci pensino davvero al suo futuro. Poco importa che in questi anni tu abbia bussato a tutte le porte che ha più volte citato Gianfranco Vitale su queste stesse pagine, e le abbia trovate chiuse. «Le faremo sapere…», si legge in quelle telefonate e in quelle mail, seguite da giorni e giorni in cui aspetti invano. È umano: in quel momento dici e pensi: «Evvai, anche loro credono nel futuro di mio figlio!». E invece no.
Perché i Centri Diurni che ti propongono non contengono alcun progetto per un lavoro, un’inclusione sociale, un progresso di tuo figlio verso l’età adulta. Sono “progetti tanto carini che piacciono tanto”, la musica, la ceramica, al limite il teatro… ma nulla che si concretizzi in un lavoro, per carità.
Purtroppo io ho una mente immaginativa e questo è un male, perché mi permette di tratteggiare un quadro avendo a disposizione poche parole, pochi elementi. Ed ecco il quadro che mi sono tratteggiata: decine di ragazzi accompagnati per mano verso… il nulla, la nebbia, un’isola che non c’è. Per questo credo che l’interpretazione della celebre “isola che non c’è” di Peter Pan sia sbagliata e che soprattutto lo sia per quanto riguarda i “bambini sperduti”. I “bambini sperduti” non sono là perché si sentono liberi, e Peter Pan non sta facendo loro un favore. Li ha rapiti e li tiene lì per i suoi scopi, per alimentare e curare il suo mondo di fantasia.
Ecco cosa sono gli autistici adulti, dalla maggiore età in poi: “adulti sperduti” in una crudele isola che non c’è, senza più nemmeno un nome – visto che la definizione di autismo scompare a diciotto anni -, destinati a rimanere confinati in un mondo a capriccio di chi vuole occuparsi di loro senza crederci veramente.
Le mie parole sono volutamente dure: quanti progetti, quante terapie ci sono dopo i 18 – ma che dico, dopo i 13 anni – che abbiano come scopo davvero la persona con autismo, e non la singola associazione, la sopravvivenza del singolo centro e, soprattutto, la tranquillità di una società che non vuole lavorare sulle differenze, ma preferisce comode persone conformi?
Io, finora, spulciando ne ho trovate ben poche di iniziative del genere e ho anche trovato che sono tutte “a tempo”, ovvero che, nella maggior parte dei casi, al giovane e all’adulto con autismo ci si limita a far passare il tempo. Apriti cielo, poi, se ha, come Giovanni, una minorazione aggiuntiva! Non lo vuole nessuno: di persona o per mail, o per telefono, i miei contatti, spesso ripetuti, mai hanno avuto successo. Che vada ad esempio alla Lega del Filo d’Oro, che esperienza con gli autistici non ne ha, che vada al Sant’Alessio [Centro Regionale Sant’Alessio – Margherita di Savoia per i Ciechi di Roma, N.d.R.], che dall’inizio dell’anno, con l’operatrice precedente in maternità, non si è curato di mandare un altro operatore, lasciando Giovanni senza assistenza domiciliare né scolastica per plurihandicap… tanto, che volete che faccia, da adulta, una persona con autismo? Dove volete che vada? Perché mai un genitore, e la persona stessa di cui stiamo parlando, dovrebbe desiderare di avere un lavoro, di essere amato, di formarsi una sua vita? Diamogli sesso, invece di amore, diamogli tempo perso, invece di lavoro. Alimentiamo l’errata convinzione che siano solo “soggetti disturbati” che passano il tempo a urlare, insegnamo loro ad allacciarsi le scarpe, senza un perché, a lavarsi le mani, ad alzarsi al mattino, ma senza uno scopo, come tanti piccoli androidi…
Il giorno del suo compleanno mio figlio rideva con i suoi amici, operatori SAISH [SAISH sta per Servizio per l’Autonomia e per l’Integrazione Sociale delle Persone Disabili del Comune di Roma, N.d.R.], che sono diventati membri della nostra famiglia perché hanno capito che Giovanni era persona e soggetto, invece di oggetto.
Nel pomeriggio, questi ragazzi, come regalo di compleanno, lo hanno portato al circo acquatico, regalando anche a me una domenica diversa. E ascoltando Giovanni, mi chiedevo, come mi sto chiedendo anche leggendo il bel libro di Gianfranco Vitale [“Mio figlio è autistico”, N.d.R.]: è mai possibile che il suo umorismo, la sua schiettezza e sincerità, la sua bontà e individualità non abbiano un ruolo, un peso e una dimensione nella nostra società?
E che dire dei ragazzi di 17 anni con autismo che nel giorno del loro compleanno amici intorno non ne hanno proprio e non ne avranno, perché c’è chi ha deciso che debbano stare solo tra loro e che l’inclusione debba limitarsi alle poche ore in classe, quando e se li fanno stare in classe con gli altri ragazzi? E la colpa è sua, mia o di chi queste cose non le vuole vedere o ascoltare?
Anch’io, come ha fatto Vitale su queste pagine, auspico un incontro tra grandi e piccole associazioni, ma per prima cosa il mio consiglio è che queste associazioni, i ragazzi e gli adulti con autismo li vedano davvero e non diventino, per loro, solo “numeri” da sbandierare come trofei.
I bei nomi non servono, se dietro non c’è un progetto che permetta a tutte le persone con autismo di rimanere Persone. Essere genitori di un autistico, essere presidenti di associazioni, non è sufficiente, se a specchiarsi è sempre e solo il nostro ego. Non servono le apparizioni, le sfilate, i cortei. Certo, sono belli, variopinti e divertono tanto, come i cartoni alla TV e certe trasmissioni come Scherzi a parte, ma cosa cambiano nella vita di mio figlio, nella vita delle persone con autismo?
A mio parere la strategia sull’autismo è sbagliata proprio perché questa parola è diventata maiuscola e vincolante, sopravanzando parole più corrette (autismi invece di autismo) e, soprattutto, dimenticando di fare premettere ad autismi la parola Persone.
Le parole, poi, sono certamente importanti, ma devono anche mostrare strade e diventare azioni, altrimenti restano una povera cosa, riempita di nulla.
E intanto il tempo passa, e tra dodici mesi io mi ritroverò qui, con mio figlio che entrerà in quell’età in cui gli altri ragazzi progettano un loro futuro. E se mi chiederà quale sarà il suo, vorrei proprio potergli rispondere.