Ma l’educazione ai generi è indispensabile

«L’educazione al rispetto dei generi e della diversità è – secondo Simona Lancioni – uno strumento indispensabile per contrastare la violenza sulle donne, l’omofobia e gli abusi sulle persone con disabilità». Alcune riflessioni sul tema, che prendono spunto da alcune recenti affermazioni di Papa Francesco, riguardanti proprio l’“educazione dei generi”

Antonello da Messina, "La Vergine leggente" (detta anche "Annunciata di Palermo")

Antonello da Messina, “La Vergine leggente” (detta anche “Annunciata di Palermo”), olio su tavola, 1475 circa, Galleria Regionale di Palazzo Abatellis, Palermo

Con grande piacere abbiamo ospitato nello spazio del Gruppo Donne UILDM [l’Autrice della presente riflessione fa parte del Coordinamento del Gruppo Donne UILDM, ove UILDM sta per Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare, N.d.R.] le proposte di integrazione al Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere (curato dal Dipartimento delle Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio), avanzate dall’ANFFAS (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale) [se ne legga anche nel nostro giornale, N.d.R.]. In quel Piano d’azione, infatti non vi era alcun riferimento alla specificità della condizione delle persone con disabilità, né alla loro maggiore esposizione al rischio di violenza.
A tal proposito va detto che tra gli interventi di contrasto alla violenza, quelli orientati alla prevenzione della violenza stessa assumono un’importanza strategica, e riguardano in modo specifico la comunicazione attuata dai media, l’educazione al rispetto tra i generi e la formazione degli operatori (della scuola e della comunicazione), affinché promuovano il riconoscimento di ciascun individuo (anche disabile) come soggetto sessuato.
Ovviamente sono fondamentali anche le cosiddette “azioni riparatrici”, quelle finalizzate a riconoscere le vittime di violenza (con o senza disabilità) e a dare loro sostegno e supporto, ma possiamo convenire che la violenza sarebbe molto meglio prevenirla, piuttosto che agire quando essa si è ormai compiuta.

Per contrastare i meccanismi che portano alla violenza è necessario conoscerli. La violenza di un genere sull’altro è solitamente attuata dagli uomini nei confronti delle donne proprio in ragione dell’appartenenza di genere di queste ultime. Ciò significa che non tutte le violenze che hanno come vittima una donna possono essere considerate come “violenze di genere”. Se ad esempio una donna viene ferita o uccisa nel corso di una rapina, siamo certamente davanti a un grave episodio di violenza, ma questo non rientra nella definizione di “violenza di genere”. Quest’ultima, infatti, è agìta da chi pensa che i generi siano ordinati in modo gerarchico, che quello femminile sia un genere subordinato, e che chi appartiene a un “genere superiore” possa discrezionalmente disporre delle persone che appartengono a un “genere inferiore”, delle quali ha un’immagine rigida e stereotipata.
L’educazione ai generi si occupa proprio di spiegare ai bambini e alle bambine, ai ragazzi e alle ragazze, che non esiste un genere superiore e uno inferiore, e che i generi hanno pari dignità. Essa non è utile solo per la prevenzione della violenza sulle donne, ma è efficace anche nel contrasto all’omofobia. Infatti, anche le discriminazioni, lo scherno e le altre violenze subite da chi ha un orientamento sessuale diverso dall’eterosessualità nascono da un’errata idea sui generi: l’idea, cioè, che il genere (che è una costruzione sociale) e il sesso (che è un dato biologico) debbano necessariamente coincidere, e che quando ciò non accade ci sia qualcosa di sbagliato, di nocivo, da correggere, da curare. Le evidenze scientifiche mostrano che questa idea è sbagliata. In altre parole, affermare che l’omosessualità (sia maschile che femminile) vada accettata e rispettata non significa sminuire o delegittimare l’orientamento eterosessuale, significa invece educare al rispetto della diversità anche in materia sessuale, e, dunque, prevenire la violenza nei confronti delle persone omosessuali.
Chi è impegnato/a a contrastare la violenza sulle donne impara ben presto che le forme di violenza sono tutte deprecabili: non occorre essere donne, né persone con disabilità, né omosessuali, o immigrati, o altro… per prendere posizione contro la violenza, qualunque sia il pretesto che la giustifica, chiunque ne sia il bersaglio.

Per questi motivi suscitano perplessità le recenti dichiarazioni di Papa Francesco, quando sul volo di ritorno da Manila, nelle Filippine, ha accostato l’opera di chi promuove la «teoria del gender» (l’educazione ai generi) a una «colonizzazione ideologica» assimilabile ai piani di indottrinamento posti in essere dalle «dittature del secolo scorso», e ha citato esplicitamente i “balilla” e la “gioventù hitleriana” (Andrea Tornielli, Il Papa: «Così tentarono di corrompermi», in «Vatican Insider.it», 20 gennaio 2015).
Si può essere d’accordo con la considerazione che talvolta chi rivendica rispetto partendo da una situazione di abuso e prevaricazione possa, per reazione, scivolare su posizioni estreme. Tale sarebbe, ad esempio, l’affermazione che “solo gli uomini devono stare in casa” a fare le faccende e prendersi cura dei figli, visto che le donne la loro parte l’hanno già fatta abbondantemente nei millenni passati e attuali. Ma chi si pone su una posizione equilibrata si limita semplicemente a rivendicare che i lavori di cura (della casa, dei figli, delle persone con disabilità, degli anziani/e ecc.) siano equamente distribuiti tra uomini e donne.
Estrema sarebbe anche, altro esempio, l’affermazione che le relazioni tra omosessuali funzionano sempre, e che funzionano meglio delle altre. Invece le relazioni tra omosessuali – al pari delle altre – possono funzionare bene oppure no, la qual cosa ha più a che vedere con le competenze relazionali delle persone che con l’orientamento sessuale, e tuttavia il fatto che talvolta anch’esse possano non funzionare non costituisce un valido motivo per non riconoscerle come legittime.
Ma i due esempi citati – va ribadito – esprimono posizioni estreme, non condivise da chi, come ad esempio il Gruppo Donne UILDM, lavora per le pari opportunità anche per chi convive con la disabilità (si veda ad esempio, a tal proposito, Ruoli imposti e ruoli negati, Collana “Donne e disabilità”, Gruppo Donne UILDM, 2008).
Non si tratta pertanto di “colonizzare popoli”, o di disconoscere le “famiglie tradizionali” (con questa espressione si intende la famiglia fondata sul matrimonio di persone di sesso diverso); si tratta invece di promuovere una cultura di rispetto e di equilibrio nelle relazioni, e di prevenire la violenza che scaturisce da un’errata interpretazione del concetto di genere. E si tratta, anche, di riconoscere che le famiglie sono tante e diverse (nel merito si veda anche la Sezione Popolazione e famiglie dell’Annuario Statistico Italiano 2014, ISTAT, 2014).
Ci sono famiglie formate da un uomo e una donna, ci sono quelle con figli/e e quelle senza figli/e, ci sono famiglie unipersonali, ci sono quelle composte da due uomini, da due donne, da una madre e un figlio, da un padre e una figlia, da due uomini con figli/e… le combinazioni sono così tante che diventa davvero arduo ipotizzare che un unico modello familiare possa andar bene per tutti e tutte, e che, all’interno della famiglia, l’organizzazione del lavoro e la distribuzione delle responsabilità debbano seguire sempre lo stesso schema (con la donna a casa a pulire e ad accudire la prole, e l’uomo al lavoro… sempre che ne abbia uno).

E a proposito di organizzazione familiare, lo scorso dicembre era stato lo stesso Papa Francesco a regalarci una suggestiva immagine della Sacra Famiglia: «Quella di Nazareth non era una famiglia finta, irreale. Maria, la mamma cucinava, faceva tutte le cose della casa, stirava le camicie, Giuseppe, il papà faceva il falegname» (Papa Francesco, Maria cucinava e stirava le camicie di Gesù e Giuseppe, in «Corriere della Sera.it» – Cronaca di Roma, 17 dicembre 2014). Tutto bene, ci mancherebbe. Quella descritta dal Papa è una bella famiglia di duemila anni fa. È invece anacronistico pensare che questo sia l’unico modello possibile per le famiglie del 2015, eppure c’è chi pensa esattamente questo (si veda, ad esempio, Manuela Messina, Milano, proteste al convegno sulla famiglia. Manifestanti: “L’unica malattia è l’omofobia”, in «La Stampa.it», 17 gennaio 2015). Ma cosa dovremmo farne delle tante famiglie che non rientrano in quel modello?
Mossa da curiosità, ho cercato invano la rappresentazione di una “Madonna col ferro da stiro”. Ne ho trovata una che legge. Dunque Maria cucinava, puliva, stirava e… leggeva. Maria leggeva, che meraviglia!

La presente riflessione è già apparsa nel sito del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), con il titolo “L’educazione ai generi è indispensabile”, e viene qui ripresa, con alcuni riadattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.

Sui temi qui trattati, suggeriamo anche la lettura, sempre nel nostro giornale, di Quella triste “Mappa dell’intolleranza”.

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