Ho appena terminato di leggere l’articolo a pagina 21 dell’edizione odierna del «Corriere della Sera» [l’edizione del 5 gennaio, N.d.R.], con la notizia riportata anche dal telegiornale delle 13.30 riguardante Ashley, la bimba con cerebrolesione di Seattle sottoposta a pesanti mutilazioni, chieste dai suoi genitori e giustificate dalle sue gravi disabilità [sull’argomento Superando ha già dato spazio ai contributi di Giorgio Genta e Marina Cometto, N.d.R.].
Come nascondere il mio sconcerto nell’apprendere che questa bambina è stata “violata” nel corpo con interventi che non si praticano tutti insieme nemmeno agli animali usati per le sperimentazioni (asportazione dell’utero, delle mammelle e già che c’erano dell’appendice, oltre ad una massiccia terapia ormonale prolungata per due anni)? Non posso pensare al dolore e alla sofferenza fisica che ha patito e che ogni donna prova quando viene sottoposta a interventi così importanti.
Certo, l’avranno sottoposta anche a terapie antidolorifiche e senz’altro, date le sue condizioni cognitive, non sarà stata consapevole di quanto le è successo; nondimeno il mio stomaco e il mio cuore provano un sussulto nell’immaginare quel corpo così barbaramente mutilato.
Tutto questo non può essere permesso: Ashley è una persona, una bambina, una donna e ha diritto ad essere rispettata anche nella sua corporeità, come qualsiasi altra persona, qualsiasi altra bambina, qualsiasi altra donna.
La notizia mi addolora come donna, come madre – anche di un ragazzo con gravi disabilità – e come presidente di un’organizzazione che riunisce in Italia associazioni di persone con disabilità e associazioni di familiari di persone con disabilità non in grado di rappresentarsi da sole.
Come genitore di un ragazzo con gravi disabilità fisiche e cognitive, divenuto tale per un episodio di coma postanossico, mi sento autorizzata a prendere la parola sulla condizione di Ashley.
So cosa significa lo stupore della diagnosi, il terrore che ti assale quando resti sola con tuo marito e pensi a quanto i medici ti hanno detto. So cosa significa pensare al benessere di questo tuo figlio, al suo futuro che sarà così diverso da quello degli altri tuoi figli.
Le spalle e la schiena conoscono la fatica della cura quando il corpo di tuo figlio cresce e diventa uomo o donna, ma resta nelle sue funzioni come quello di un neonato. E quando i tuoi amici non ci sono più, tu resti sempre lì, con il tuo “neonato” di 20, 30, 40 anni da portare in bagno, lavare, pulire, vestire, imboccare, prendere in braccio quando “fa i capricci”, calmare quando è nervoso, cantare con lui le canzoncine dei bambini, guardare con lui la Melevisione in TV (benedetta Melevisione!).
E così migliaia di altre azioni che cambiano a seconda della condizione di ogni persona con disabilità che, guarda caso, è sempre diversa e mai uguale.
Ebbene, mai e poi mai riterrei praticabili le azioni intraprese da quei genitori americani. E non perché sono brava, votata al sacrificio o quant’altro. Per me, e siamo in tanti, questi figli sono figli e basta. E come figli li abbiamo desiderati, poi amati, poi accolti e infine accettati.
Tagore, il grande poeta indiano, in un suo bellissimo passo dice: «Benedici questo piccolo cuore, questa bianca anima che ha conquistato il bacio del cielo per la nostra terra… Non ha appreso a disprezzare la polvere, non ha imparato a bramare l’oro… Non so come ti ha scelto fra la folla, venne alla tua porta, ti afferrò la mano…». E conclude dicendo: «Nella tua fretta, non dimenticarlo, lascia che venga al tuo cuore, e benedicilo».
Non voglio a questo punto sembrare sdolcinata e rischiare di far passare la mia reazione alla notizia di Ashley come l’emozione di una donna ormai rassegnata al suo destino. Nient’affatto. Vorrei adesso parlare e scrivere come presidente del Consiglio Nazionale sulla Disabilità.
Questa è “solo” la solita notizia sensazionale, di grande effetto mediatico, ma che ahimè non aiuta certo a far comprendere cosa sia la disabilità. L’orrore di tale fatto avvolge tutto e la “normalità” della disabilità cade in secondo piano, rischiando addirittura di scomparire. Questa conoscenza “viziata” della disabilità confonde la persona comune che accetta per vero solo quello che comunica il medico o l’esperto di turno e non ascolta il diretto interessato che quella condizione vive personalmente e quotidianamente. Perché è proprio nell’ascolto di chi vive che si può ricavare il giudizio e la risposta ai fatti di Seattle.
L’elenco di tutti coloro che nella storia hanno costruito una cultura negativa della disabilità è quanto mai lungo. Saltando Platone, possiamo iniziare da Sparta per arrivare ai giorni nostri con quei pediatri olandesi di Groningen che nel 2002 hanno affermato e predisposto il cosiddetto “Protocollo di Groningen”, in collaborazione con la magistratura locale, presentandolo nella prestigiosa rivista «New England Journal of Medicine» (2005, n. 352, pp. 959-962).
Esso contiene linee guida generali e specifici requisiti riguardanti l’eliminazione attiva della vita di neonati con gravi disabilità. Uno studio “viziato” sin dalle sue basi, in quanto redatto dopo l’osservazione di 22 (!) neonati affetti da spina bifida. E oggi la magistratura olandese, in base a quel documento, non persegue quei medici che praticano l’eliminazione dei neonati con tali caratteristiche…
Oppure pensiamo a quei ginecologi inglesi del Royal College of Obstreticians and Gynaecologists che solo un paio di mesi fa hanno deliberato un documento in cui chiedevano l’eliminazione dei neonati con disabilità alla nascita, in qualche modo “sfuggiti” all’eliminazione in utero, presentando le proprie giustificazioni a tale pratica.
È terribile, per noi persone con disabilità, scoprire ancora una volta che quest’ultima, secondo tali eminenti personaggi, non appartiene all’umanità; scoprire che la storia non ci “cita” mai, se non per proporre la nostra eliminazione; scoprire che quando non si riesce ad eliminarci, si propongono interventi che giustifichino un’esistenza secondo modelli di dubbia eticità, come quello di Ashley.
Nel mondo siamo 650 milioni, in moltissime terre siamo esclusi e segregati, uccisi in forme tribali o istituzionali, senza che alcuno sollevi dubbi di legittimità o umanità.
I medici si arrogano la competenza di valutare la bassa qualità della vita delle persone con disabilità, partendo solo da considerazioni mediche, spesso distorte, e proponendo o accogliendo richieste come quelle dei genitori di Ashley, senza riflettere sul fatto che una persona con disabilità potrà vivere pesanti o lievi limitazioni alla liberta di muoversi, pesanti o lievi discriminazioni nelle regole sociali o istituzionali che lo includono o lo escludono, ma la qualità della sua vita non sarà automaticamente inferiore a quella di altre persone.
Cosa significa sterilizzare una bambina se non ammettere e accettare che in una vita futura potrà essere violentata? Sterilizzare Ashley non significa difenderla da possibili violenze, ma permettere anzi che queste violenze (se perpetrate) avvengano senza che nessuno se ne accorga. Invece di lottare per una cultura accogliente, si preferisce mutilare, per non avere conseguenze e complicazioni.
Cosa significa asportare il seno (preferisco chiamarlo così e non con le parole sin troppo asettiche di “ghiandole mammarie”) ad una bimba, se non il desiderio di annullare la sua fisicità femminile? E lascia il tempo che trova la questione di eventuali contatti fisici “pericolosi” con chi assiste Ashley, anche perché rischia di far passare gli assistenti come una specie di “pervertiti sessualmente repressi”, mentre noi sappiamo bene che i nostri assistenti personali, se ben formati e motivati, sono anche i nostri migliori alleati, i nostri ponti con l’autonomia e l’indipendenza.
Nella sua apparente importanza secondaria, mi sembra poi terribile anche la questione dell’appendicectomia: non vorrei infatti banalizzare la vicenda, ma mi sembra di parlare con il mio meccanico, quando gli porto l’auto, che mi dice: «Già che ho il cofano aperto, ti controllo questo e quello e se del caso metto tutto a nuovo…».
Penso anche alla vicenda di Piergiorgio Welby e ricordo come negli ultimi giorni del 2006 tutti gli italiani abbiano dolorosamente scoperto che nessun cittadino può essere sottoposto ad interventi medici senza il suo consenso e soprattutto quando questi sono inopportuni o inappropriati.
Ai genitori della piccola Ashley hanno presumibilmente fatto intendere che un’appendicectomia “preventiva” avrebbe eliminato problemi legati ad eventuali fatti infiammatori non riconoscibili data l’incapacità di comunicare. In parole povere, se ora la bimba avrà il mal di pancia, si potranno escludere di certo sia un’appendicite acuta che un ciclo mestruale doloroso. Ma siamo certi che così non le saranno evitate altre patologie addominali? Ne valeva la pena?
Potremmo poi continuare con la questione della terapia ormonale cui Ashley è stata sottoposta, «per bloccare la crescita ed evitare fatiche ai genitori» (leggi anche abolizione del ciclo mestruale).
Questo è un altro fatto terribile ed è forse la prova che questa è una bimba “fintamente” accettata, una bimba con disabilità “in miniatura”, un “giocattolo complicato”, una sorta di “animale da compagnia modificato”, in modo tale da permettere ai proprietari di non avere troppe noie se non quelle comuni: dar da mangiare e da bere e nel caso specifico cambiare i pannoloni. Orribile! E tutto nel nome della qualità della vita. Ma di chi?
Noi persone con disabilità affermiamo invece che la nostra qualità della vita – come quella di qualsiasi persona – non dipende dalla condizione soggettiva della persona (peso, altezza, sesso, seno prosperoso ecc), bensì dal livello di inclusione della società che ci accoglie e dalle risorse che essa mette a sua disposizione (istruzione, ausili, servizi ecc.).
La nostra qualità della vita dipende dai comportamenti, dai sostegni e dalle risorse della famiglia – o che vengono date alla famiglia – dall’ambiente di vita, dalle istituzioni responsabili ad intervenire e, quando adulta, dalla stessa persona con disabilità.
La nostra qualità della vita dipende dal rispetto dei diritti umani che appartengono ad ogni persona e quindi anche alle persone con disabilità. Diritti umani proclamati nel 1948 dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, intendendo per uomo tutte le persone senza distinzione alcuna. Diritti Umani contemplati nel 1993 dalla Risoluzione ONU sulle Regole Standard per le Pari Opportunità di Partecipazione delle Persone con Disabilità. Una risoluzione scritta da tutti gli Stati presenti all’ONU, con la collaborazione delle persone con disabilità e nella quale si dichiara che a queste ultime, per consentire di partecipare alla vita sociale, di godere appieno di tutti i diritti e di soddisfare anche i vari obblighi di cittadinanza, devono essere fornite pari opportunità, eliminando ogni discriminazione.
La stessa OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), “santuario” dell’approccio medico per definizione, influenzata anche dalle Regole Standard, ha avviato un coraggioso processo di modifica della sua ICIDH (Classificazione delle Menomazioni, Disabilità e Handicap), presentando nel 2001 l’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute), attraverso il quale viene diffuso un “messaggio chiave”, riconoscendo che ogni essere umano può avere un problema di salute e chiarendo il ruolo fondamentale dell’ambiente nel determinare la disabilità. Non qualche cosa, dunque, che capita solo a una minoranza, ma che può succedere a chiunque, diventando un’esperienza umana universale.
Come detto, l’ICF sposta poi la causa di esclusione dalla disabilità all’ambiente: non è a causa della sua disabilità che la persona deve rinunciare a partecipare alla vita sociale, ma a causa delle barriere e degli ostacoli che la società costruisce.
E allora, se la disabilità può capitare a chiunque e in qualsiasi tempo della vita, che differenza passa tra la vita di Ashley e quella di una persona divenuta disabile? Se la sua vita, secondo i genitori e i medici che sono intervenuti così pesantemente sul suo corpo, non viene considerata come fatto rilevante per l’applicazione delle tutele derivanti dai diritti dell’uomo, quali il rispetto dell’integrità fisica e il divieto ad essere sottoposti ad interventi medici non appropriati, anche un evento traumatico o una patologia invalidante potranno essere intesi come elemento decisivo sulla necessità di intervenire, se non si può eliminare la persona che ha subito il trauma o soffre di gravi patologie invalidanti…
Cari medici di Seattle, ma allora, secondo le vostre argomentazioni, anche voi siete in pericolo di vita! Se dovessimo infatti adottare le vostre dichiarazioni e doveste cadere vittima di un incidente con gravi danni cerebrali, di un’emorragia cerebrale, di una demenza senile, di una grave malattia neuromuscolare, di un tumore in fase terminale o di un’altra patologia altamente invalidante, quando pensate possa arrivare il momento di “riaggiustarvi” fisicamente in modo da non provocare “pesi assistenziali”? Al momento della diagnosi? Al vostro primo ricovero ospedaliero? Al rientro al vostro domicilio?
Ora, augurandovi naturalmente una vita piena e soddisfacente, senza alcuna malattia né disabilità futura, vorrei “semplicemente” che ci venisse riconosciuto il diritto di essere ascoltati in quanto persone con disabilità.
Non è possibile, in alcun tribunale che possa definirsi giusto, emettere sentenze senza ascoltare il “presunto colpevole”. Quando si tratta di persone con disabilità, tutto ciò viene negato e chi deve emettere la sentenza si arroga il diritto di saperne più dell’interessato.
Dai vostri luoghi di studio, dai vostri laboratori dite che le nostre vite sono senza dignità, ma avete chiesto alle persone (che voi chiamate ancora “handicappati”, “diversamente abili” o peggio ancora con l’appellativo stesso della disabilità: i miodistrofici, i down, i cerebrolesi ecc.) un parere sulla loro vita? Che etica è quella che esplora e indaga sulla qualità della vita delle persone con disabilità partendo dal punto di vista del medico? Che ne sa quel medico di come la mia vita si è sviluppata se non mi ascolta? Che ne sanno gli “esperti di bioetica” della vita delle persone con disabilità se osservano solo la disabilità e non la persona?
Certamente non vi sarete accorti che il 25 agosto 2006 abbiamo scritto e definito, assieme ai nostri Governi la nuova Convenzione ONU sui Diritti e la Dignità delle Persone con Disabilità che vieta ogni forma di discriminazione, promuove l’uguaglianza delle opportunità e tutela i nostri diritti umani.
Oggi, dunque, esiste finalmente uno strumento legale che vieta le azioni subite da Ashley e le aberrazioni prodotte sul suo corpo. Non sarà più possibile la difesa dei privilegi e degli stili di vita delle persone non disabili, proponendo di sopprimere o di “modificare” chi li pone in discussione.
Noi siamo persone e non solo oggetti, di cui fare quello che si vuole. Per questo è importante che le persone con disabilità e i loro familiari siano ascoltati per combattere queste aberrazioni sul nascere.
Bisogna ascoltarci, portare in primo piano i nostri diritti e le nostre opinioni. Lo stesso Comitato Nazionale di Bioetica deve tenere conto del nostro punto di vista quando argomenta sulla dignità della vita; è arrivato il momento di parlare delle persone con disabilità e non più della disabilità perché noi siamo persone e come tali titolari di diritti umani fondamentali e di conseguenza anche di diritti civili, economici e politici.
Da ultimo un messaggio anche ai mezzi di comunicazione: basta con i titoli e le notizie ad effetto, utili solo ad attirare la curiosità della gente. Basta parlare solo dei genitori che ammazzano i loro figli con disabilità, di abbandoni e di violenze.
Tutto questo esiste, certo, ma non è tutto. Esiste invece un mondo pieno di dignità, laboriosità, serenità, diritti e doveri di cittadinanza. Se nel parlare delle persone con disabilità si parla solo della loro indegnità di vita, la pubblica opinione, formata su questi standard, non potrà mai cambiare e sempre di più saranno coloro i quali accetteranno azioni come quelle subite dalla piccola Ashley.
*Presidente del CND (Consiglio Nazionale sulla Disabilità).