Stanco, depresso, ricco di dolori di varia natura, insonne, pessimista per il futuro, ansioso: questo lo stato nel quale mi trovavo, ad essere anche ottimista. Talmente malconcio da disertare persino la leggendaria riunione annuale delle “famiglia con disabilità” della Federazione Italiana ABC (Associazione Bambini Cerebrolesi) e solo la pazienza e la generosità degli amici riuniti a Milano ha superato la mia incapacità tecnologica a interagire con i social network, tenendomi aggiornato telefonicamente sulle discussioni in corso.
C’è stato poi un piccolo fatto che mi ha rammentato la forza della condivisione e l’importanza dell’ormai leggendaria resilienza, intesa come “capacità di resistere”: la lettura del libro Se Arianna di Anna Visciani, cioè la storia di una famiglia “come le nostre”. Un libro parallelo in modo quasi stupefacente. Parallelo alla storia di Silvia [la figlia con disabilità grave di Giorgio Genta, N.d.R.] e della sua famiglia.
Se Arianna è un libro molto bello e molto utile, ma non è dei suoi pregi letterari che vorrei parlare, bensì dell’incredibile, continuo, puntuale riscoprirsi nella storia dei grandi eventi e dei piccoli fatti di una qualsiasi madre, di un qualsiasi padre e dei siblings (fratelli e sorelle) di una persona con disabilità grave. Parlo per me ma so di parlare per tutti noi.
Se Arianna, dunque, è il titolo del libro della Visciani e il mio vecchio testo Abile, disabile, disabile grave: storia di Silvia e della sua famiglia [settimo capitolo del libro “Mio figlio ha le ali. Storie di quotidiana disabilità”, Erickson, 2007, N.d.R.] iniziava anch’esso con un “se”, un “se” dubitativo, come espressione dell’eterna incertezza e della casualità nella vita umana.
La mamma di Arianna è un medico che ha rinunciato alla professione per accudire la figlia, la mamma di Silvia è un avvocato che ha fatto l’identica dolorosissima rinuncia.
La patologia di Arianna è assimilabile nella relativa diversità a quella di Silvia, quasi identiche le conseguenze fisiche, analoghe le tribolazioni cliniche, le operazioni e i loro esiti dolorosi, equiparabile la fatica assistenziale delle madri e delle famiglie.
Assai simili sono le conseguenze sociali della disabilità grave in famiglia, l’importanza della scuola, pur nella diversità delle scelte, l’utilità dei servizi territoriali (ove esistono ), i rapporti non proprio idilliaci con i medici e con i loro giudizi categorici, le relazioni con la burocrazia imperante.
Medesima è poi l’importanza degli ausili: il “seggiolone” (pardon, il sistema di postura), la carrozzina, l’auto attrezzata (le leggendarie monovolume).
E ancora, i risultati della fatica assistenziale dei padri, tra ernie e altre patologia ossee e muscolari.
Infine, un identico quesito («perché è toccato a me, alla mia famiglia?»), con la Fede che aiuta chi ce l’ha e il suo surrogato laico riscontrabile – la resilienza – per chi ne è privo.
Considerazione finale: non siamo soli, come famiglie e come persone, anche se molti (rappresentanti della politica in testa) fanno il possibile per farci sentire tali.