«Politrauma facciale, ferite da morso ed ecchimosi varie». Questo è il referto medico di una bambina di 12 anni di Genova, aggredita non da un animale selvaggio, ma da una ragazzina di 16. A tal proposito non si può non condividere la sconcertata e dura analisi dello scrittore Paolo Di Stefano, apparsa nei giorni scorsi sul «Corriere della Sera», a proposito del bullismo scolastico, ma non solo, che attraverso alcuni episodi particolarmente violenti torna in cima alla lista delle infamie registrate in cronaca. Uno degli episodi più recenti riguarda una ragazzina con disabilità dell’Istituto Alberghiero Giulio Pastore di Varallo Sesia (Vercelli), scuola particolarmente rinomata.
Qui non vogliamo fare differenza tra le vittime del bullismo scolastico: il ragazzo timido ed educato, quello più piccolo d’età, quello con disabilità, quello di origine straniera, quello obeso, quello che – com’è normale in fase di crescita – vive una condizione di disistima o di fragilità: sono questi, i “bersagli del branco”, espressione perfetta di un mondo adulto regredito e incapace di pensiero critico. O di pensiero, e basta. «Sarebbe un grave errore liquidare nella categoria dei “casi estremi” o del “gusto allarmistico tipico della stampa” i fatti di bullismo che emergono quotidianamente», registra ancora Di Stefano.
Nel caso della vittima con disabilità, però (anche l’alunno spettatore che non può agire è vittima), oltre al danno personale si deve considerare un particolare danno sociale, quello che deriva dalla distruzione di un investimento costituito dal lavoro abilitativo delle famiglie, e riabilitativo dei professionisti, di cui ogni alunno con disabilità è portatore e di cui spesso nemmeno gli insegnanti e i dirigenti d’istituto sono consapevoli. Anche a questo si dovrebbe pensare quando si valuta il danno della scuola, prima ancora dell’immagine e della reputazione: al lavoro dei docenti che hanno preceduto quelli attuali e di tutti coloro che impegnando nient’altro che se stessi, hanno fatto buona scuola, buona riabilitazione, buona sanità.
Un atto di bullismo vissuto – se non addirittura subìto – vanifica tutto questo lavoro e riduce, nelle vittime, la fiducia negli altri, rendendo più pesanti i limiti.
Per questo appare ancora più grave la condizione dell’insegnante che era presente al pestaggio e che – pare – non lo ha impedito. Ma io mi domando anche quale sia stato il ruolo degli altri studenti presenti al fatto; e dei loro genitori, dopo il fatto.
Per questo sarà ancora più grave ogni ritardo burocratico, ogni scaricabarile, ogni atteggiamento “cerchiobottista” possibile. Attendiamo l’esito delle indagini, dunque, ma con particolare interesse.
Il bullismo è sempre esistito, ma oggi ha una diffusione mediatica che lo rende ancora più preoccupante, rileva Di Stefano. Infatti il pubblico dei “mini-bulli” attende in Rete le prodezze dei propri simili; e c’è soprattutto un pubblico di adulti – i cosiddetti “Indignati Sociali”, come li aveva definiti a suo tempo Franco Bomprezzi – che pensano che difendere una buona causa dia potere assoluto anche contro un minorenne, per quanto bullo, «come se – scrive Di Stefano – alla ferocia fisica si potesse rimediare con una simmetrica ferocia verbale».
Colpa della Rete? Colpa della tecnologia sempre più sofisticata nel facilitare la comunicazione globale interconnettendo più sistemi? Sarà paradossale, ma proprio i cosiddetti “dis-abili” fanno un largo e competente uso dei sistemi informatici, della Rete e della tecnologia. Perché è grazie alla Rete che le persone che prima non avevano modo di relazionarsi, soprattutto in maniera profonda, adesso lo fanno. Ed è grazie alla tecnologia che c’è stato un avanzamento straordinario nell’acquisizione di larghe fette di autonomia.
Non saranno dunque i bulli o gli “Indignati Sociali”, espressione della più becera ignoranza, a convincerci che era meglio quando era peggio.
Sta perciò a una corretta politica ed etica delle diversità segnare il passo. La società e la scuola inclusive non si ottengono semplicemente ponendo una pedana davanti a un gradino o attrezzando il bagno a norma. Com’è altrettanto facile ridurre a “retorica della disabilità” una verità – quella di un interesse di facciata – che ci sta scomoda. Invece ciascuno è parte protagonista e responsabile del medesimo ambiente. Sta a noi cominciare a istruirci su ciò che non sappiamo, ad accettare le correzioni sul linguaggio, a conoscere direttamente, e non per sentito dire, le persone con disabilità e ogni forma di diversità, cioè quella parte del nostro stesso “ambiente” che era relegata nell’angolo dei “poveri infelici”.
Ad ascoltare chi, come Paolo Di Stefano, dice cose scomode ma vere nel potente finale del suo articolo: «[…] prima dei controlli a posteriori […] vengono le responsabilità degli educatori: l’alleanza (perduta) tra insegnanti, padri e madri. La cui ansia di successo, la cui spinta alla prevaricazione e all’aggiramento delle regole, la cui prepotenza in proprio, in mancanza di un sistema pedagogico minimamente capace di imporre dei limiti ai desideri e al narcisismo fisiologico degli adolescenti, spesso non fanno che favorire l’esplosione violenta dei figli».