Non intendo indugiare sul passato e non sogno nemmeno il futuro; preferisco concentrarmi sul presente, perché è lavorando sul presente che gli insegnanti hanno la possibilità di “formare il futuro”. Per questo, oggi più di ieri, c’è bisogno di docenti appassionati per il loro lavoro, che non siano protèsi solamente al 27 del mese! Bisogna rimettere in asse i tre grandi pilastri sui quali si regge la vera Buona Scuola, ossia la didattica, l’inclusione e la formazione.
L’inclusione è la più recente, la più fragile e la prima che – per l’insidia della pigrizia – rischia di essere eliminata. Molte sono le criticità che gravitano attorno al sostegno. Tra le più note: la discontinuità didattica; un eccessivo numero di alunni nelle classi frequentate da bambini con disabilità; la preparazione carente dei docenti di sostegno; la mancata formazione obbligatoria iniziale e in servizio degli insegnanti curricolari sulle didattiche inclusive; la crescente delega del progetto di inclusione ai soli docenti di sostegno; e, infine, il fatto che troppo spesso la carriera del sostegno venga sfruttata come “scorciatoia” per entrare di ruolo.
Non siamo di fronte a luoghi comuni o a semplificazioni, si tratta di questioni reali che quotidianamente vanno a incidere sul futuro di moltissimi alunni. Bambini e ragazzi condannati senza possibilità di appello a una vita al di sotto delle loro possibilità, solo perché qualcuno ha deciso che gli interessi di categoria sono più importanti!
La recente Proposta di Legge C-2444 [“Norme per migliorare la qualità dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità e con altri bisogni educativi speciali”, N.d.R.], sostenuta dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e dalla FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali di Persone con Disabilità), potrebbe offrire la possibilità di superare molti di questi ostacoli e di rafforzare questo pilastro. Ma è necessario promuovere un dibattito serio, che metta realmente al centro il bambino e i suoi interessi.
Non servono parole come “inclusione”, “diversamente abile”, “ICF” [l’ICF è la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e del Sostegno, elaborata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.], “Progetto di vita”, se rimangono concetti vuoti, buoni per riempire i libri dei “professoroni” e la bocca di insegnanti e politici. È necessario mettere in moto il pensiero e comprendere che il lavoro dell’insegnante, a maggior ragione di quello di sostegno, non è un lavoro come tutti gli altri: al contrario, richiede passione e dedizione, non può diventare un ripiego. Servono, quindi, strumenti eccezionali per allontanare dalla scuola gli insegnanti pigri, demotivati e che una volta entrati in ruolo, smettono di svolgere il proprio lavoro.
La “scorciatoia” non dovrebbe essere chiusa – così come prevede la citata Proposta di Legge – con percorsi di formazione diversi per insegnanti di sostegno e insegnanti curricolari, poiché aumenta notevolmente il rischio di buttare via assieme all’acqua sporca anche il bambino.
Mi chiedo e chiedo: se partiamo già fin dall’inizio separando le due carriere, come possono poi le due figure rincontrarsi? Siamo veramente sicuri che sia sufficiente qualche ora in più destinata all’insegnamento della pedagogia speciale o a “chiacchiere” sull’inclusione? Non è forse più logico aspettarsi che la separazione porti con sé un aumento della delega del bambino con disabilità all’insegnante di sostegno? Addirittura, a quel punto, sarebbe ancora più preparato e potrebbe occuparsene meglio…
E mi chiedo anche: non sarebbe più utile che tutti gli insegnanti, curricolari e di sostegno, facessero lo stesso percorso, magari più lungo, in modo che si ponessero salde basi per vivere realmente l’inclusione e la corresponsabilità? Senza contare poi che il fatto di dover operare subito una scelta definitiva potrebbe comportare il rischio di avere sempre meno insegnanti disposti a intraprendere questa professione. Perché ad essere scoraggiati non sarebbero soltanto i “furbetti” alla ricerca di una “scorciatoia”, ma anche tutti quelli che, lavorando, potrebbero apprezzare la raffinatezza e la delicatezza del sostegno.
Il vero problema, a mio avviso, non è la carriera, ma la sicurezza del ruolo, il fatto che un insegnante, una volta superato l’anno di prova, possa adagiarsi e ridursi a fare il minimo indispensabile. Nessuno lo controlla e anche se dovesse essere controllato, non cambierebbe nulla!
L’altro aspetto critico, causa di tanti allontanamenti da questa professione, è che nel corso degli anni la figura dell’insegnante di sostegno è stata svuotata di significati e ridotta a quella di un “docente di serie D”: chiunque può insegnare ai ragazzini con disabilità, cosa vuoi che serva! Lo stesso scarso rispetto verso il maestro e l’allievo si è riversato poi nell’utilizzo di questa risorsa per fare supplenza, magari portandosi dietro il bambino!
E questo, indirettamente, ci riporta a un altro pilastro: la formazione, alla quale la Proposta di Legge sostenuta dalle Associazioni di persone con disabilità e delle loro famiglie dedica particolare attenzione, rendendola obbligatoria per tutto il personale della scuola, compresi Dirigenti Scolastici e il Personale ATA [Amministrativo, Tecnico e Ausiliario, N.d.R.].
Quello che però manca, nella scuola, è un programma nazionale di attività formative, come l’ECM per la Sanità [ECM sta per Educazione Continua in Medicina, N.d.R.], che consenta il mantenimento di un elevato livello di conoscenze relative alla teoria e alla pratica in campo educativo. Troppo spesso, infatti, gli insegnanti si dimenticano che la formazione non è solo un diritto, ma anche un dovere! Formarsi – chi può negarlo? – richiede tempo, impegno, fatica: ma è la professione che lo richiede, e la ragione è ovvia: si sta lavorando con la vita dei bambini. Voi affidereste la vostra vita a un medico che non si aggiorna?
La scarsa formazione, il poco buon senso, la pigrizia sono le cause che spingono gli insegnanti a delegare il bambino alla Sanità, col facile pretesto che «senza un certificato non possiamo fare nulla!». Ma poi, quando il certificato arriva, non si fa nulla ugualmente; nella migliore delle ipotesi si compensa e si dispensa… come se questi strumenti fossero dei medicinali.
Le diagnosi non sono la soluzione. Le diagnosi non sono il punto di arrivo, ma quello di partenza. Spesso si parla di “ritorno alla medicalizzazione”, ma in realtà si riesuma uno spettro che non esiste. Perché non sono i clinici ad entrare nella scuola, ma sono gli insegnanti a mandare gli alunni dai clinici. L’importanza del loro contributo non sta nelle etichette, ma nel fatto che forniscono un nuovo punto di vista e indicano delle aree su cui intervenire.
La Scuola non deve e non può delegare ad esterni scelte che potrebbe compiere da sola. Pensiamo al computer o alla calcolatrice… Nessuna legge ne vieta l’utilizzazione a scuola e tali strumenti si potrebbero utilizzare ogni qualvolta li si ritenesse utili: e allora, perché aspettare il certificato? Perché non fare usare computer a tutta la classe?
Nella loro “diversità”, gli alunni certificati con disabilità, con DSA o BES [rispettivamente Disturbi Specifici dell’Apprendimento e Bisogni Educativi Speciali, N.d.R.] sono, per la Scuola, una grossa opportunità per migliorare la didattica e l’inclusione. Se poi la Scuola riuscirà a fare un passo in avanti, non avrà più bisogno di queste etichette, poiché riuscirà a promuovere le potenzialità degli alunni a prescindere dal loro funzionamento.
Ma per raggiungere questo traguardo è necessario, oltre a un cambio di mentalità e alla formazione, comprendere che il Piano Educativo Individualizzato (PEI), il Profilo Dinamico Funzionale (PDF), il Piano Annuale dell’Inclusione (PAI), il Piano Didattico Personalizzato (PDP) non sono solo adempimenti burocratici, ma un momento di riflessione per creare il percorso più adeguato per l’alunno. Purtroppo ad oggi questi documenti, nella maggior parte dei casi, sono completamente inutili… Perché allora non ripensare agli stessi e (magari) ridurne il numero, in virtù del saggio detto «pochi ma buoni!»? Il tempo delle carte deve finire, per lasciare posto alle azioni. Alla didattica!