Egregio Presidente Sergio Mattarella, sono il padre di Gabriele, una persona autistica di 34 anni. Scrivo a te, e contestualmente al Presidente del Consiglio Matteo Renzi e a Papa Francesco, in occasione del 2 Aprile, Giornata Mondiale per la Consapevolezza dell’Autismo, perché ritengo importante che anche questa problematica, e le persone che ne soffrono, entrino a pieno titolo attraverso quelle porte del Quirinale che, saggiamente, tu hai preteso fossero sempre aperte.
Nel tuo discorso d’insediamento del 3 febbraio, Presidente, hai detto tra l’altro: «Garantire la Costituzione […] significa rimuovere ogni barriera che limiti i diritti delle persone con disabilità […]. È necessario applicare questo principio, farlo vivere giorno per giorno».
Caro Sergio, quante volte invece – soprattutto a causa della mancanza di una vera cultura del rispetto della diversità – vediamo i nostri figli trattati non come persone bensì – se e quando va bene, nel senso che non ci sono, per esempio, gravi atti di bullismo o di vera e propria discriminazione e sopraffazione nei loro confronti – etichettati solo come “disabili”, “handicappati”, “invalidi”, “fuori di testa”.
Si stenta a comprendere che con l’autismo siamo davanti a un disturbo onnicomprensivo, totalmente invalidante, la cui eziopatogenesi [cause e sviluppo, N.d.R.] resta oscura. Esiste una lunga serie di fenotipi [caratteristiche osservabili, N.d.R.], ma la verità è che non possediamo la chiave di lettura e la comprensione di come intervengano i fattori genetici e ambientali.
Già alla fine del secondo anno di età è oggi possibile formulare una prima diagnosi. È così, generalmente, che i genitori, dopo un comprensibile momento di incredulità, prendono lentamente coscienza che il loro bellissimo bambino è affetto da un disturbo cerebrale complesso che condiziona e altera profondamente la corretta utilizzazione delle informazioni che giungono al sistema sensoriale, inteso nella sua globalità.
È quello il momento in cui inizia un durissimo calvario, è la vita normale che salta e non ci sono contropartite. Saltano i ritmi sonno-veglia, gli incontri con gli amici, la vita sociale si riduce fino ad azzerarsi completamente. Diventano lussi non solo le vacanze, ma anche i pochi momenti di respiro e perfino le malattie.
Ben presto nella vita delle famiglie irrompono neuropsichiatri infantili e psicologi, logopedisti e psicomotricisti. In compenso, non di rado, tardano ad avviarsi quegli interventi di tipo cognitivo-comportamentale, raccomandati dalla comunità scientifica internazionale, che produrrebbero risultati tanto più significativi se iniziati in modo intensivo e precoce.
E tuttavia, caro Sergio, lo snodo più drammatico è quello che coincide con la fine della scuola e il compimento della maggiore età. La ragione principale di ciò risiede nel fatto che a 18 anni la psichiatria italiana – può sembrare incredibile ma è così – non riconosce più la diagnosi di autismo. In altre parole, i nostri figli, con la maggiore età, perdono l’etichetta che li aveva contraddistinti fino a quel momento e passano sotto la categoria generica di “handicap mentale grave”, con ciò che ne consegue. Non sono più autistici, diventano “psicotici”, “schizofrenici”, “epilettici” o altro ancora…
Una tale deprecabile situazione pone gravissimi problemi, non solo (e non tanto) dal punto di vista statistico, perché non consente di conoscere con esattezza la reale dimensione del numero di autistici che vivono in Italia (ciò che non rende approntabili le risposte dovute), ma soprattutto perché impedisce ai genitori di richiedere quei provvedimenti di cui i loro figli continuano purtroppo ad aver bisogno, essendo in realtà lo spettro autistico – come ampiamente acclarato – un disturbo long life, destinato cioè a durare per l’intero arco della vita.
Si capisce, allora, che se è giusto dire che l’autismo spiazza chiunque, questa affermazione è ancora più vera al raggiungimento della maggiore età, quando la mancanza di interventi specifici continuativi si ripercuote pesantemente sia sulle famiglie sia sui soggetti autistici, che rischiano di perdere abilità e competenze faticosamente acquisite e di subire pesanti trattamenti farmacologici, forniti in alternativa ai metodi riabilitativi, costretti in molti casi a ricorrere alla permanenza in strutture semiresidenziali e residenziali, spesso inadeguate.
Non è “imbarazzante”, Presidente, che non esistano dati ufficiali? Che ci si limiti a dire che “forse sono 600.000” le famiglie che in Italia convivono con l’autismo? Come si può pensare che a queste condizioni l’autismo entri a pieno titolo nell’agenda della programmazione sanitaria regionale e nazionale? Quanto dovremo aspettare per vedere riconosciuto il principio che, prima ancora dell’autismo, esiste la persona autistica, ognuna diversa dall’altra, cui necessariamente dev’essere garantito un intervento individualizzato?
È (anche) da questi interrogativi inquietanti, dalla difficile realtà che viviamo ogni giorno, che nasce la condivisione piena del tuo fermo richiamo al rispetto dei diritti. È vero: bisogna garantire, a chi soffre di questa grave disabilità, il diritto a godere di una migliore qualità della vita, perché i bambini, gli adolescenti, gli adulti con autismo, potranno avere un presente, e di conseguenza un futuro, solo a condizione che i loro diritti siano – per davvero – riconosciuti, rispettati e soprattutto applicati, come sancito dall’articolo 26 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
Io temo, Sergio, che senza questo impegno diventi inevitabile che le persone con problemi comportamentali e intellettivi siano relegate a un’ingiusta condizione di emarginazione e sofferenza, in cui prevale un’incomprensibile uniformità di trattamenti, anziché l’auspicata attenzione alle esigenze specifiche che caratterizzano i disturbi dello spettro autistico.
Può diventare necessario che, a un certo punto, quasi sempre in condizioni di emergenza – quelle, tanto per intenderci, cui non si dovrebbe mai giungere – i genitori di un soggetto autistico siano costretti a rivolgersi ai Servizi Sociali e Sanitari, nella speranza di rendere gestibile una realtà che il trascorrere del tempo, ma più ancora il procrastinare degli interventi essenziali, hanno reso sempre più critica, fino a farla avvitare su se stessa.
All’improvviso situazioni che potrebbero essere gestite normalmente nell’àmbito familiare possono diventare straordinarie, ispirando e favorendo soluzioni limite, quasi sempre in perdita. Si può arrivare a dover intervenire per forza, urgentemente, come di fronte a un evento imprevedibile, e l’istituzionalizzazione non di rado è l’unica proposta in campo.
Mi rivolgo dunque a te, Egregio Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, perché vorrei proporre alla tua attenzione qualche dato.
In Italia spendiamo 50 milioni di euro per assistere i minori nelle loro case e ben 506 milioni per tenerli nelle comunità! Questa sproporzione enorme, da 1 a 10, ci racconta la poca prevenzione che stiamo facendo per aiutare le famiglie a rimanere unite, a farcela anche se in difficoltà (e infatti siamo ultimi in Europa per la spesa rivolta alle famiglie, ai minori e alla lotta all’esclusione: a certificarlo è l’Eurostat, l’Istituto Statistico dell’Unione Europea).
Consentimi di sottoporti qualche altro elemento di riflessione: secondo studi recenti di istituti specializzati, la metà delle madri di persone con autismo ha dovuto lasciare il lavoro o ridurlo; il 30% degli adolescenti e adulti non riceve alcun intervento; nel 20% dei casi le famiglie inseguono ipotesi di trattamento inutili, dannose e spesso molto costose.
Oggi, Caro Matteo, se è difficile che un ragazzo “neurotipico” trovi un’occupazione, diventa quasi impossibile per persone rientranti nello spettro autistico: infatti, solo il 10% lavora dopo i 20 anni, un altro 10% frequenta la scuola o un corso di formazione. Ben il 50% si limita a frequentare un centro diurno, dove si svolgono laboratori ludico-ricreativi o genericamente etichettati come di “interesse culturale”. Il 21,7% sta a casa.
Le tipologie di “inserimento lavorativo” presenti in Italia, quali i laboratori protetti e il collocamento mirato, regolato dalla Legge 68/99 [“Norme per il diritto al lavoro dei disabili”, N.d.R.], sono un quasi totale fallimento per le persone con autismo.
Ti chiedo, Caro Matteo: pensi anche tu che la condizione per abbattere (davvero) queste barriere, che non sono solo ambientali o architettoniche, sia, per i nostri figli, raggiungere l’autonomia lavorativa, oltre che quella familiare e affettiva? Non era a questo che pensava il Presidente Mattarella quando ha detto, rivolgendo un pensiero alle persone con disabilità: «È necessario rimuovere ogni barriera che limiti i diritti»?
Io credo, Presidente Renzi, che se si riuscisse a supportare con validi interventi le persone autistiche, queste, messe nella condizione di farsi comprendere, potrebbero adeguarsi alle principali regole sociali e raggiungere un sufficiente grado di integrazione, che le emanciperebbe dalla dipendenza dalle famiglie (prima) e dall’isolamento sociale (poi).
Perché sprecare le competenze di chi è autistico, sapendo che non sono solo particolari e insolite, ma utili per lui e per la collettività?
Purtroppo in Italia continua a prevalere – anche nella gestione di questa disabilità – un logoro incomprensibile modello assistenzialistico, con responsabilità che gravano quasi esclusivamente sulle famiglie, fino a condizionarne negativamente la qualità della vita e le scelte a lungo termine.
Ma non solo: nel comparto pubblico mancano interventi e programmi indicati come specifici per l’autismo, di tipo cognitivo-comportamentale (ABA, TEACCH) e la CAA (Comunicazione Alternativa e Aumentativa). Molto spesso le famiglie sono costrette – se e quando possono permetterselo – a ricorrere a privati: tutto ciò non è sconfortante? Perché il Metodo ABA non dev’essere convenzionabile e rimborsabile in tutte le Regioni italiane?
Al momento, il Disegno di Legge sull’autismo, approvato il 18 marzo scorso dalla Commissione Igiene e Sanità del Senato [Atto del Senato n. 344, “Disposizioni in materia di diagnosi, cura e abilitazione delle persone con disturbi dello spettro autistico e di assistenza alle famiglie”, N.d.R.], dev’essere riproposto e calendarizzato anche in sede di Commissione Affari Sociali della Camera, per una (auspicabile) celere approvazione definitiva.
Intanto la Linea Guida n. 21 dell’ISS (Istituto Superiore di Sanità), che definisce l’appropriatezza degli interventi in questo campo, continua ad essere largamente disattesa, né hanno trovato piena attuazione le Linee di Indirizzo emanate dalla Conferenza Unificata Stato-regioni nel novembre del 2012.
Perché, Matteo? Perché non provare a “cambiare verso” anche a politiche che penalizzano i più deboli? Perché nel progetto della Buona Scuola di cui sei – a ragione – assertore convinto, non inserire anche il tema dell’autismo, allo scopo di assicurare l’indispensabile formazione ai docenti e scongiurare i terribili episodi di emarginazione, e talvolta sopruso, di cui le cronache abbondano quotidianamente? Perché perpetuare soluzioni di marcata impronta assistenziale, che poco o nulla hanno a che vedere con il soddisfacimento dei bisogni specifici delle persone autistiche? Perché privilegiare la provvisorietà, nel contrasto all’autismo, a scapito di un’illuminata strategia? Perché rassegnarsi a mettere in campo solo modalità operative improvvisate, poco qualificate, prive di una valida programmazione?
Come puoi non porti il problema di “rottamare”, prima ancora che dirigenti e funzionari incapaci, una cultura che poggia tutto sull’assistenzialismo più becero e – questo sì- conservatore? Cogli il rischio che i veri “rottamati” siano, in questo modo, proprio i nostri figli?
È per l’insieme di tutte queste ragioni, Matteo, che rivolgo a te un appello accorato, affinché le prossime scelte del Governo siano finalmente orientate nella giusta direzione: quelle che definiscono la centralità del tema della Vita Indipendente. Solo l’autonomia, infatti, può consentire alle persone con disabilità di godere di tutti gli altri diritti universali: l’accesso al lavoro, la formazione, il tempo libero.
Servono una serie di atti concreti: la rapida approvazione della Legge sull’autismo. L’inserimento di quest’ultimo nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), con la garanzia che i servizi siano erogati davvero e su tutto il territorio nazionale, poiché è questa la sfida che più di tutte sarà da verificare nel prossimo futuro. Maggiore impegno da parte delle Istituzioni nel settore della ricerca e in àmbito diagnostico. Maggiori incrementi di risorse umane ed economiche. Formazione permanente dei professionisti. Protocolli clinici. Superamento della “giungla” disomogenea di approcci diagnostici, terapeutici, assistenziali e sociali esistenti, in modo da arrivare a standard in grado di migliorare la qualità della vita e dare risposte coerenti ai bisogni speciali delle persone con autismo. Monitoraggio serio e puntuale dei risultati degli interventi messi in campo.
Chiedo infine a Te, Carissimo Papa Francesco, di pregare perché i nostri figli, pur così dolorosamente colpiti dalla vita, possano prendersi quanto di bello quest’ultima, nonostante tutto, può ancora continuare a offrire loro.
Il 22 novembre 2014, nel corso dell’udienza concessa ai partecipanti alla XXIX Conferenza Internazionale promossa dal Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, tu – Santità – hai detto tra l’altro: «È necessario l’impegno di tutti per promuovere l’accoglienza, l’incontro, la solidarietà, in una concreta opera di sostegno e di rinnovata promozione della speranza, contribuendo in tale modo a rompere l’isolamento e, in molti casi, anche lo stigma che gravano sulle persone affette da disturbi dello spettro autistico, come spesso anche sulle loro famiglie».
E’ proprio così, Francesco: l’autismo è uno stato d’essere e non una malattia! Le condizioni dei genitori, cui di fatto viene demandata ogni incombenza, fino a renderli veri e propri “portatori sani di disabilità”, sono oggi molto difficili.
Troppo spesso, per ricevere attenzioni, si vedono costretti a rendere di pubblico dominio il loro dolore. Disperati, accompagnati da ingiustificati sensi di colpa, devono fare i conti con la sensazione di non riuscire più a far fronte, a resistere, a costruire, a integrare, a recuperare le energie necessarie per riorganizzare la propria vita e tutelare efficacemente i figli.
Così tornano di attualità alcune angosciose domande: «Che ne sarà di loro quando noi non ci saremo più? Saranno emarginati socialmente, privati dell’attenzione e dell’affetto che ci sforziamo di dare in ogni occasione? Istituzionalizzati, magari in qualche grosso centro di impronta manicomiale?».
La questione del “dopo di noi”, Carissimo Francesco, è drammaticamente attuale e dev’essere affrontata per tempo, se non si vuole che assuma effetti devastanti (quante volte il suicidio e l’omicidio sono diventati l’epilogo naturale della disperazione e della solitudine dei genitori?).
È dunque necessario lavorare “durante noi, “mentre noi”, alla realizzazione di una presa in carico che abbia caratteristiche compatibili con le difficoltà funzionali delle persone affette da autismo, tale da rappresentare il punto d’arrivo di scelte che le coinvolgano all’interno di un vero e proprio progetto di vita, da costruire ogni giorno, dall’infanzia all’età adulta e anziana, con l’obiettivo di favorire il raggiungimento della maggiore autonomia possibile e della migliore integrazione e inclusione sociale nella comunità.
Credo che – per evitare il rischio di essere autoreferenziali – debbano essere questi i temi da mettere al centro della Giornata Mondiale dell’Autismo. È giusto che questo 2 Aprile sia un giorno di festa, lo meritiamo noi e lo meritano, soprattutto, i nostri figli. Coloriamo di azzurro le piazze e i monumenti delle nostre città, ma facciamo arrivare nelle strade anche la nostra protesta e le nostre proposte.
Portiamo la voglia e il bisogno di lavorare alla costruzione di una società in cui modi di pensare e comportamenti cosiddetti “strani”, come sono quelli messi in atto, talvolta, dai nostri figli, non siano più visti come “malattie da normalizzare”, ma come arricchimento culturale: elemento identificativo essenziale di persone cui dev’essere riconosciuto e garantito il pieno diritto ad apprendere, ad agire, partecipare, decidere… In una sola parola a “pensare e gioire” della vita.
Puntiamo a riconsegnare un cittadino a una società in grado di rispettarlo e valorizzarlo.
Buon 2 Aprile!