Nel 2014, in Italia, ci sono state 509.000 nascite, 5.000 in meno rispetto al 2013, il livello minimo dall’Unità d’Italia, mentre i decessi sono stati 597.000, circa 4.000 in meno dell’anno precedente. Il numero medio di figli per donna è stato pari a 1,39, come nel 2013 e l’età media al parto è salita a 31,5 anni. Calano dunque sia la natalità che la mortalità (ISTAT, Indicatori demografici, sito dell’ISTAT, 12 febbraio 2015).
«Quasi il 53% delle mamme italiane lavora. Una percentuale che sale al 57,8% tra le donne al primo figlio e scende al 39% di quelle con tre o più figli […]» (Giulia Mallone, Maternità e lavoro in Italia: capire il problema per trovare le soluzioni, in «Percorsi di secondo welfare», 16 febbraio 2015).
Il 42,7% delle madri che lavorano affermano di avere problemi a conciliare gli impegni familiari con il lavoro, la qual cosa non sorprende se si considera la carenza strutturale di servizi a supporto della genitorialità che caratterizza il nostro Paese.
Dover rinunciare al lavoro retribuito per occuparsi dei figli può significare molte cose. Può voler dire buttare nel cestino una laurea e la propria formazione professionale, ritrovarsi in una situazione di indigenza o di dipendenza economica da qualcun altro, perdere una parte considerevole della propria libertà, giungere alla vecchiaia senza una pensione.
Nei casi, poi, in cui la donna subisca abusi e violenze dal partner, ritrovarsi alle dipendenze economiche di quest’ultimo può voler dire accrescere notevolmente il potere di controllo e di ricatto del proprio persecutore, e ridurre drasticamente le possibilità di uscire dalla spirale di violenza in cui ci si trova.
I dati dell’ISTAT, però, non tengono conto della specifica situazione dei caregiver, ovvero quelle figure, per lo più donne, che – in àmbito domestico e a titolo gratuito – si prendono cura in modo significativo e continuativo di un congiunto non autosufficiente a causa di una grave disabilità, pur convergendo, gli studi sul lavoro di cura, nel mostrare come la loro condizione sia notevolmente più drammatica di quella delle altre famiglie.
Simona Bellini, presidente del Coordinamento Famiglie Disabili, in una recente lettera aperta indirizzata al Presidente della Repubblica e pubblicata da questa stessa testata, parla, a tal proposito, di «stato di schiavitù» e di «condizione di “arresti domiciliari”». In sostanza Bellini denuncia come la mancanza di riconoscimento, di tutele e di servizi comporti per le/i caregiver l’impossibilità di soddisfare persino i «diritti umani fondamentali, come il riposo, la salute, la vita sociale», e chiede – provocatoriamente – «di poter accedere all’Istituto della Grazia, che solo il Presidente della Repubblica nel nostro Paese può concedere, perché venga restituita, ai nostri familiari e a noi stessi, quella libertà che ci è stata sottratta senza alcuna condanna né processo giudiziario» (Simona Bellini, Noi caregiver, “invisibili tra gli invisibili”, chiediamo la Grazia!, in «Superando.it», 7 aprile 2015).
Intanto, la televisione, la pubblicità, i giornali, i blog, i social network e i libri continuano a tessere le lodi del materno. E cosa potrebbe mai desiderare una donna se non diventare madre, sacrificarsi, e dedicare tutta la sua vita ai figli? Il sacrificio di sé, che all’occorrenza può spingersi sino all’annullamento, non è facoltativo e rinunciabile, fa parte del “modello base”, ed è presentato come “naturale” (ci si aspetta che tutte le madri siano disponibili persino a morire per i figli. Se manifestano un’indisponibilità in tal senso non sono considerate buone madri).
A ciò fanno da corollario i continui attacchi alla legge sull’aborto, la colpevolizzazione delle donne che non vogliono avere figli, o di quelle che, pur desiderandoli, decidono di rinunciarvi poiché non possono, o non vogliono, sostenere da sole i maggiori oneri della genitorialità, oppure, ancora, di quelle altre che – pur tra mille salti mortali – cercano di conciliare maternità e lavoro, e si vedono costantemente rinfacciato il fatto di non essere sufficientemente presenti (un’accusa che ai padri lavoratori viene rivolta in misura molto minore e, in genere, non con la stessa acrimonia).
«Nell’Italia dove il mito del materno è potentissimo per le madri si fa assai poco sul piano delle leggi, dei servizi, del welfare, dell’occupazione, dell’immaginario», osserva Loredana Lipperini, giornalista, scrittrice e blogger (Di mamma ce n’è più d’una, Milano, Feltrinelli, 2013), e tocca un aspetto strategico: l’immaginario.
Nell’immaginario collettivo, infatti, continua ad essere considerato implicito che chi svolge lavori di cura sia anche disponibile al sacrificio incondizionato di sé, e si insiste a considerare le donne come “naturalmente” portate alla cura. In realtà nessun ruolo (e dunque neppure quello materno), e nessun lavoro (e dunque neanche quello di cura), dovrebbe comportare una compressione delle libertà individuali tale da ledere i diritti umani fondamentali (dover lasciare il lavoro retribuito, non avere un po’ di tempo per sé, non avere la possibilità di curarsi e riposarsi…). Quando ciò accade, ci troviamo davanti a una grave ingiustizia che non dovrebbe lasciarci indifferenti.
Nel parlare del lavoro di cura si oscilla spesso tra due poli: da un lato si mettono in rilievo gli aspetti gratificanti della relazione, della condivisione e dell’espressione affettiva, dall’altro quelli della responsabilità, della fatica, del sacrificio di sé. Non è una contraddizione, il lavoro di cura incorpora quest’ambivalenza. Ma sia che lo si consideri un’opportunità, sia che lo si consideri un onere, non esiste alcun dispositivo “naturale” per cui esso non possa essere equamente distribuito tra uomini e donne, né è obbligatorio che ad esso debba far fronte un unico soggetto.
Ogni persona che nasce riceve delle cure; ogni persona, nel crescere, può imparare a considerare la cura come un fatto che lo/la riguarda personalmente. Solo una società capace di superare l’idea del lavoro di cura come faccenda individuale e femminile, per fare spazio a quella del lavoro di cura come compito-responsabilità della collettività trasversale ai generi, sarà anche in grado di produrre normative e servizi tali da garantire tutele sia a chi svolge lavori di cura, sia a chi ne è destinatario, sia a coloro che, avendo necessità di cura e capacità di autodeterminarsi, desiderano gestirsi in proprio l’assistenza.
Le sacrosante rivendicazioni delle e dei caregiver che mirano a sottrarsi all’annullamento, prima ancora che con l’assenza di una normativa che riconosca, definisca e tuteli la figura stessa del caregiver, devono fare i conti con un immaginario collettivo povero e selettivo che nella maggior parte dei casi il lavoro di cura non lo vede proprio, e quando lo vede ne coglie un’immagine rigida e stereotipata che legittima e rinforza situazioni di ingiustizia sociale.
Per approfondire:
° La Cura Invisibile: blog che promuove le iniziative per il riconoscimento giuridico dei caregiver familiari.
° Beatrice Credi, Le mamme dei disabili invecchiano prima, in «West – Welfare Società Territorio», 14 aprile 2015.
° Gabriella Meroni, Mamme con figli disabili, fatevi aiutare, in «Vita», 14 aprile 2015.
° Stefania Martani, Disabili, la venticinquesima ora di chi li assiste, in «la Repubblica.it», 13 aprile 2015.
° Simona Bellini, Noi caregiver, “invisibili tra gli invisibili”, chiediamo la Grazia!, in «Superando.it», 7 aprile 2015.
° Paola Arosio, Caregiver, «vogliamo i nostri diritti», in «Corriere della Sera.it», 6 marzo 2015.
° Dalle donne con disabilità un sostegno alle donne che assistono, a cura del Coordinamento del Gruppo Donne UILDM, Gruppo Donne UILDM, 4 marzo 2015.
° Giulia Mallone, Maternità e lavoro in Italia: capire il problema per trovare le soluzioni, in «Percorsi di secondo welfare», 16 febbraio 2015.
° ISTAT, Indicatori demografici, in sito ISTAT, 12 febbraio 2015.
° ISTAT, Avere figli in Italia negli anni 2000. Approfondimenti dalle indagini campionarie sulle nascite e sulle madri, in sito Istat, 2 febbraio 2015.
° Loredana Lipperini, Di mamma ce n’è più d’una, Milano, Feltrinelli, 2013.