Cecco Angiolieri (1260-1312): «S’i’ fosse ‘mperator, sa’ che farei? A tutti mozzarei lo capo a tondo». Settecento anni e ho sentore che il desiderio di “annientare il suddito”, di prendersi gioco di lui, sia ben vivo nell’indole umana.
La questione del nuovo ISEE [Indicatore della Situazione Economica Equivalente, N.d.R.] puzza, e non posso scrivere odora, perché l’olezzo mi arriva intenso e ripugnante. Quando viene varato un provvedimento e questo non solo va contro gli interessi della collettività, ma viene riconosciuto illegittimo e lo Stato pensa di fare ricorso, l’atmosfera che si crea è lugubre. Sa di uno Stato che si accanisce contro chi lo compone e questo è indice della decomposizione dei princìpi fondamentali dello Stato di diritto, che nasce proprio per difendere i suoi membri.
L’ISEE è l’Indicatore della Situazione Economica Equivalente, vale a dire il meccanismo che serve a individuare qual è il reddito effettivo di un individuo, considerato nel suo nucleo familiare, per accedere a condizioni agevolate ad alcune prestazioni sociali, contribuendo più o meno a pagare per i servizi che riceve.
Strumento controverso quanto indispensabile, esso è stato recentemente aggiornato (Decreto del Presidente del Consiglio 159/13), andando a considerare fonte di reddito «i trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, incluse le carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche». Invero ha stabilito franchigie per le persone con disabilità, ovvero porzioni di reddito da abbuonare ai fini del calcolo in funzione della loro condizione di gravità.
Aspetto singolare di questa rivisitazione dell’ISEE è che lo Stato computa come fonte di reddito tutte le provvidenze economiche da esso stesso destinate alla persona con disabilità, come la pensione d’invalidità o l’indennità di accompagnamento e che la computazione di tali contributi supera le franchigie concesse. In questo modo il cittadino disabile si trova sistematicamente ad avere un reddito derivante da ciò che lo Stato gli fornisce. Come dire che lo Stato con una mano offre – riconoscendo che quanto offre è destinato a rispondere ai bisogni della persona – e dall’altra prende, considerando quanto donato come fonte di ricchezza. Un controsenso in essere perché se la cosa donata risponde alla copertura di un bisogno non è certamente fonte di ricchezza. È un debito che consiste nel tentativo dello Stato di rifondere i cittadini con disabilità per le innumerevoli mancanze verso di loro. Lo sanno bene i diretti interessati, che hanno fatto ricorso al TAR [Tribunale Amministrativo Regionale, N.d.R.] ottenendo ragione.
Sono state infatti tre le Sentenze del TAR del Lazio (la n. 2454/2015, la n. 2458/2015 e la n. 2459/2015) che, in buona sostanza, hanno invalidato l’articolo 4 al comma 2, lettera f e al comma 4, lettera d, numeri 1, 2, 3 del suddetto DPCM.
In pratica, il TAR ha giudicato che nel calcolo del reddito non vadano considerati i trattamenti assistenziali e le provvidenze economiche di cui sopra; inoltre, avrebbe riscontrato un’ingiustificata disparità di trattamento nella ripartizione delle franchigie a favore dei minori, che non sarebbe chiaro perché dovrebbero godere di maggior tutele economiche a parità di condizione di disabilità rispetto ai maggiorenni.
Quelle Sentenze hanno creato una naturale confusione nell’applicazione dell’ISEE che richiede un intervento legislativo, ma che il Governo abbia intenzione di ricorrere al Consiglio di Stato contro quanto deciso dal TAR è inaccettabile. Se queste, infatti, creano un vulnus legislativo, non è ricorrendo contro i cittadini che lo si sana. Non è un segnale di civiltà, tutt’altro.
In altre parole, se il bilancio economico dello Stato non quadra, non si fa cassa contro i diritti, e il buon senso, delle persone. Torno a dire che la sola idea che il Governo possa pensare in questo modo mi repelle. Solleva puzza di bruciato. Di democrazia, di cosa pubblica, che va arrosto. S’i’ fosse foco arderei lo mondo!