Nella società contemporanea non è abbastanza centrale l’importanza del prendersi cura. Questa invece è una categoria che influenza molti dei comportamenti che si mettono in atto ed è importante riflettere sul suo significato.
La filosofia fenomenologica chiarisce bene come ognuno scelga il proprio modo di essere e di come ciò sia strettamente legato al rapporto che si ha con l’altro, con chi si prende cura di noi. L’attenzione che riceviamo fa da supporto positivo al costruirsi della personalità, cosicché ognuno di noi è in grado di prendere in esame i propri desideri e potenzialità, scegliendo un modo particolare e unico di essere, tra i vari possibili. Viceversa, la mancanza di chi si prende cura può creare un disorientamento tale da non riuscire a costruire una relazione con il sé, l’altro e l’ambiente, mancando gli stimoli che rendono possibile lo sviluppo delle scelte nel modo di essere.
Ogni persona che vuole intraprendere una professione nell’àmbito dell’aver cura dovrebbe riflettere sul perché ha deciso di lavorare in questo àmbito; a volte può succedere che si voglia dare aiuto agli altri perché lo si desidera avere; in altre situazioni c’è un modello che si vuole emulare; oppure, ancora, la spinta a prestare aiuto può derivare dalla ricerca di una gratificazione. In ogni caso è importante la consapevolezza di questi meccanismi.
Alla base della cura che si dà agli altri deve esserci l’attenzione ai bisogni reali, ai desideri, alle potenzialità che vanno sviluppate e ai limiti che, quando sia possibile, bisogna affrontare e superare. La considerazione della storia personale e familiare acquista in quest’ottica un significato particolare poiché ogni persona si struttura attraverso relazioni significative e la personalità si modifica proprio nello svolgersi dei rapporti e nel variare dei contesti relazionali.
È nei momenti critici che ognuno di noi scopre le proprie risorse e ciò che più fonda il suo modo di esistere, i propri valori e significati. È così che può capitare di cogliere le proprie criticità attraverso un lavoro di aiuto agli altri. In altre parole, nel momento in cui ci si mette a disposizione delle persone più deboli, è possibile rendersi conto se si ha o no un rapporto abbastanza sereno con se stessi.
Con l’evoluzione del pensiero e delle strutture sociali, la pratica dell’aiuto si è modificata; in origine, infatti, era legata all’istinto di conservazione, ma poi è divenuta sempre più un promuovere l’inclusione, un favorire la solidarietà.
In questo contesto trova significato quanto afferma Elena Postigo Solana: «Prendersi cura significa garantire all’altra persona non solo l’attenzione alle sue necessità più elementari, bensì anche aiutarla a mantenere relazioni significative e gratificanti, rinforzare le sue capacità intellettuali, affettive e manuali; accompagnare, ascoltare, educare e mettere in atto tutte quelle azioni di cura cosiddette invisibili o meno tangibili» (E. Postigo Solana, in Atti del Congresso I paradossi della disabilità, Madrid, Università CEU San Pablo, 19-21 aprile 2012).
In particolare, nell’azione assistenziale, rieducativa e terapeutica, si diventa in qualche modo responsabili dell’altro, si può agire tenendo conto degli aspetti pratici e razionali di chi è in difficoltà, ma è altrettanto importante dare attenzione alle realtà che riguardano la relazione, la sfera emotiva e quella affettiva. Né basta basarsi sulla comunicazione verbale: è importante infatti anche comprendere il linguaggio corporeo e saper interagire con tale modalità espressiva.
Un contributo pregnante, e molto significativo, in questo àmbito è stato dato dalla Filosofia del Volto di Emmanuel Lévinas che afferma l’impossibilità di sottrarsi alla “responsabilità” che è elemento costitutivo della relazione, un a-priori. È proprio il volto dell’altro che ci interpella e provoca la relazione, mette in questione il nostro modo di essere.
Secondo tale approccio, è possibile incontrare l’altro e noi stessi in due modi: incontro oggettivante e incontro personificatore. Il prendersi cura ha come presupposto della sua validità il cercare di far sentire l’altro “persona”. L’Io e il Tu si relazionano attraverso il volto e più in generale attraverso i gesti, la corporeità. Il corpo rivela le emozioni e i sentimenti, oltreché i pensieri. Mediante l’atteggiamento corporeo, si possono mostrare accoglienza e affetto o indifferenza, freddezza e ostilità. E di fronte a questi ultimi atteggiamenti può capitare di sentirsi “spersonalizzati”.
Nella nostra società prevale purtroppo un incontro che oggettiva l’altro, la persona diventa un’occasione per un beneficio economico, un numero da incasellare in categorie predefinite, al limite anche un bene di consumo. Va cioè perdendosi sempre più il riconoscimento dell’identità particolare di ognuno.
Chi cura e chi ha bisogno di essere accudito dovrebbero invece riconoscersi e conoscersi, prendere in considerazione le caratteristiche personali e fare anche un ulteriore passo, che consiste nel vedere oltre il contingente. Per Viktor Frankl, psicanalista austriaco che ha fondato l’approccio della Logoterapia Esistenziale, il coinvolgimento che comporta l’aver cura dell’altro significa volere il suo bene, saper guardare a ciò che potrà diventare.
La società di oggi – ancora più ora, con i tagli e la razionalizzazione delle spese per assistenza e sanità – non mette certo la persona in posizione centrale, ma anzi guarda solo a tagliare le prestazioni, non occupandosi in maniera sufficiente della qualità della cura. E così, i malati, i fragili, le persone con disabilità finiscono per perdere sia nella quantità dell’aiuto indispensabile, sia nella qualità di vita e soprattutto nel riconoscimento del loro essere persone, nella loro dignità.
A mio parere in questo incide anche la mancanza di una prospettiva spirituale o magari soltanto esistenziale, che vada oltre il contingente. Questo rende più difficile accettare e com-prendere il limite e perciò la presa in carico di chi è “diverso”.
Nel prendersi cura di sé e degli altri vi sono delle componenti affettive e emotive che danno colore a ciò che si fa. Il non riconoscerlo, perché si privilegia un modo di procedere tecnico e spersonalizzante, rende le azioni prive di significato e alla lunga crea disagio e sofferenza.
Altri aspetti che mi pare andrebbero presi in esame per migliorare l’approccio nei confronti di sé e della persona che ha bisogno di aiuto sono quelli piuttosto complessi delle difese intra-psichiche. Una buona formazione e una supervisione costante favorirebbero un corretto comportamento da parte del personale addetto all’assistenza, di quello sanitario e dei professionisti.
Un ulteriore aspetto essenziale – e che purtroppo oggi manca – è l’esistenza di un contesto valoriale e ideologico che supporti e fondi la pratica dell’aver cura. Così come spesso non esiste un riferimento concreto a modelli e ideali cui ispirarsi.
Vale la pena qui sottolineare anche l’importanza della presa in carico da parte delle famiglie, che hanno una persona con disabilità o malata al loro interno, e che andrebbero supportate, accolte; avrebbero particolare bisogno che venisse loro narrato il percorso della persona fragile, fuori dal contesto parentale.
Nella realtà familiare – e quasi esclusivamente in questa – il prendersi cura è una forma gratuita di aiuto che non risponde alle leggi del dare e ricevere, è dono spontaneo e istintivo, ha un carattere di affettività particolare e un colore emotivo che influenzano tutta la storia personale. Tutto ciò dev’essere considerato proprio alla luce della giusta battaglia perché le Istituzioni europee riconoscano i diritti dei caregiver familiari.
È proprio nell’ambito parentale, infatti, che la persona viene più facilmente riconosciuta nella sua identità, ed è dentro tale realtà che comincia ad esistere, diventa sé, sperimenta le prime difficoltà e sviluppa le proprie potenzialità.
Psicologa e psicoterapeuta.
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