«Se Moreno potesse leggere o capire quello che ho scritto, avrebbe tutto il diritto di incazzarsi con me. Ma, per mia fortuna, non può leggere, perché è cieco. E neppure capire, perché la Zigulì che ha sotto i capelli gli consente di riconoscere soltanto le tre parole che servono per sopravvivere: pappa, acqua, nanna. Meglio se ripetute più volte. Insomma, uno dei vantaggi di avere un figlio handicappato è che puoi permetterti di essere un idiota e di trattarlo anche male. E io mi concedo spesso questo vizio».
Ricordo ancora molto bene il senso di disagio e fastidio che provarono alcuni genitori di persone con disabilità quando, nel 2012, venne pubblicata Zigulì. La mia vita dolceamara con un figlio disabile, un’opera di Massimiliano Verga (Collana “Strade blu”, Milano, Mondadori, il testo citato si trova nelle pagine 5 e 6), padre, per l’appunto, di Moreno, un bambino con una severa disabilità plurima. Ricordo in particolare una mamma mentre si affrettava a spiegarmi che sua figlia, una donna con una grave disabilità intellettiva, era per lei una fonte di grande gioia, e che no, quelle cose non si scrivono.
Forse, senza saperlo, Verga stava infrangendo un “codice” non scritto, quello secondo cui un genitore, e specialmente il genitore di un figlio con disabilità, rinuncia alla propria individualità per affermare quella del proprio figlio. Molti di questi genitori temevano e temono che parlare delle proprie fatiche, della stanchezza, e anche dei sentimenti negativi che talvolta l’incapacità di sentirsi adeguati al ruolo genitoriale può suscitare, avrebbe potuto indurre qualcuno a guardare ai loro figli con disabilità come a un “peso” del quale persino gli stessi genitori si sarebbero liberati volentieri.
Molti di questi genitori temevano e temono che una lettura del genere avrebbero potuto (e potrebbero) darla gli stessi figli con disabilità, qualora avessero sufficienti capacità di intendere.
E così, è accaduto e accade che in ragione di questi travagli emotivi (talvolta integrati e rafforzati da sensi di colpa mai affrontati e mai risolti) fatica, stanchezza e sentimenti negativi trovino uno spazio relativamente contenuto nelle loro narrazioni. Un atteggiamento, questo, che contribuisce non poco a quell’ “invisibilità del lavoro di cura”, denunciata, con toni drammatici, da alcune e alcuni caregiver (si veda, ad esempio, recentemente su queste stesse pagine, Simona Bellini, Noi caregiver, “invisibili tra gli invisibili”, chiediamo la Grazia!), e che fa sì che il termine caregiver – che designa quelle figure, per lo più donne che, in àmbito domestico e a titolo gratuito, si prendono cura in modo significativo e continuativo di un congiunto non autosufficiente a causa di una grave disabilità – non abbia un corrispettivo nella lingua italiana, né, tanto meno, e a differenza degli altri Paesi europei, un qualche tipo di tutela nell’àmbito del nostro ordinamento giuridico.
Ma davvero raccontare quella fatica sottende un giudizio negativo nei confronti dei destinatari della cura (care receiver)? Chi ha letto i libri di Massimiliano Verga (ne ha scritti più d’uno), o le testimonianze dei caregiver, anche quelle dalle quali traspare la fatica della cura, sa benissimo che non è così. Nella realtà questi genitori amano talmente tanto i loro figli da arrivare ad accettare situazioni e compromessi che per se stessi probabilmente non accetterebbero mai.
Nei confronti dei loro figli con disabilità non si limitano a fare semplicemente la parte di genitori, ma si ritrovano spesso a dover supplire alle inadempienze della comunità e allo Stato, arrivando, nei casi più impegnativi, a comprimere le loro libertà individuali sino al limite dell’insostenibilità.
Sotto un profilo etico dovremmo chiederci quale tipo di moralità esprima un sistema nel quale chi si fa carico del soddisfacimento dei diritti umani di alcuni, viene ricompensato con il disconoscimento dei diritti umani propri. E, in concreto, se avessimo la pazienza di ragionarci sopra, scopriremmo che i dilemmi morali sollevati dal lavoro di cura possono essere davvero molteplici, specie se consideriamo che non necessariamente l’idea di bene di chi ha responsabilità di cura coincide con quella di chi quella cura la riceve, e che anche i rispettivi interessi potrebbero non convergere (o, almeno, non sempre). Né è detto che il conflitto che ne consegue si risolva sempre a favore dei destinatari della cura.
Un esempio può aiutare a capire: una madre non sopporta che tante e diverse persone frequentino la sua casa, pertanto controlla in modo quasi assoluto le frequentazioni del figlio trentenne, interessato da una disabilità motoria, e totalmente non autosufficiente; la donna si lamenta della fatica della cura, ma non permette che nessuno la sostituisca, neanche temporaneamente, in nessuna delle mansioni d’assistenza che le competono. La condotta di questa donna scaturisce da una valutazione morale: lei pensa che sia giusto agire così, che suo figlio abbia bisogno di questo, che una madre sappia sempre ciò che è bene per il proprio figlio. Accade ora, nel 2015.
I dilemmi di questo tipo, ovviamente, non riguardano solo la morale, ma anche la giustizia, l’eguaglianza, l’equità e, in ultima analisi, la libertà.
La riflessione morale sul lavoro di cura ha trovato ampio sviluppo nell’àmbito degli studi di genere, tanto da dare vita, a partire dagli Anni Ottanta del secolo scorso, a uno specifico paradigma teorico denominato “etica della cura” (Ethic of Care).
Caterina Botti, docente di Bioetica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma, spiega che l’etica della cura «[…] è una moralità dell’agente, più che dell’azione, centrata sull’attenzione alle relazioni e ai diversi contesti in cui gli individui interagiscono, più che su procedure razionali che astraggono dal contesto e dalle particolarità di ciascuno proprie invece delle morali universaliste» (Caterina Botti, Prospettive femministe. Morale, bioetica e vita quotidiana, Torino, Espress, 2012, p. 47).
In questa sede, dovendo sintetizzare, possiamo dire che l’etica della cura è un approccio teorico che ha avuto il merito di disvelare la portata sociale e politica del lavoro di cura. La prima ad occuparsene è stata Carol Gilligan, femminista e psicologa statunitense, con il suo “In a Different Voice” (1982). Da allora molte altre voci hanno contribuito a un dibattito che si è evoluto nel tempo. Seyla Benhabib, Susan Moller Okin, Nel Noddings, Claudia Card, Joan Tronto, Eva Kittay: sono solo alcuni dei nomi più ricorrenti.
Anche le persone con disabilità si sono cimentate col tema della cura. Il loro contributo, abbastanza critico nei confronti dell’approccio femminista, è stato sviluppato nell’àmbito degli «studi sulla disabilità» (Disability Studies).
Le critiche più forti rivolte dalle persone con disabilità all’etica della cura hanno riguardato la circostanza che essa non abbia considerato il punto di vista delle persone con disabilità, che non abbia prestato sufficiente attenzione agli aspetti della giustizia e dell’uguaglianza e che – non avendo colto l’essenza del modello sociale della disabilità (ossia che la disabilità non è l’esito delle menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali dalle quali sono interessate le persone disabili, ma scaturisce dall’interazione di tali menomazioni con barriere di diversa natura che possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione sociale delle persone con disabilità) – abbia di fatto contribuito a mantenere inalterate proprio quelle barriere che stanno alla base della discriminazione e dell’esclusione sociale delle persone con disabilità.
Osserva a tal proposito Brunella Casalini, associata di Filosofia Politica al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Firenze: «Nonostante i molti punti di partenza comuni [l’autrice si riferisce al fatto che entrambi gli approcci hanno dovuto confrontarsi con i temi della dipendenza, dell’interdipendenza e della vulnerabilità fisica e mentale, N.d.R.], la Ethic of Care e i Disability Studies si sono spesso trovati su fronti contrapposti nelle loro battaglie politiche», salvo poi aggiungere che le incomprensioni tra i due approcci «[…] sembrano essere state in parte superate e sembra essersi aperta la possibilità di un dialogo costruttivo tra le formulazioni più recenti dell’etica della cura e i tentativi di revisione e ripensamento e di parziale abbandono del modello sociale della disabilità» (Brunella Casalini, Etica della cura, dipendenza, disabilità, in sito di IAPh-Italia, Sezione Italiana dell’Associazione Internazionale delle Filosofe, 11 marzo 2015).
All’interno degli studi sulla disabilità, un apporto di grande interesse è dato dalla riflessione sull’assistenza personale autogestita elaborata dai Movimenti per la Vita Indipendente delle persone con disabilità. Questo approccio contrappone e preferisce al lavoro di cura tradizionale, basato su una relazione empatica, la relazione contrattuale con un assistente personale (scelto, formato e assunto dalla stessa persona con disabilità).
Alcuni pregi di questa riflessione consistono nell’avere rivendicato e promosso il protagonismo e l’autodeterminazione delle persone con disabilità, nell’avere mostrato come il lavoro di cura possa essere efficacemente e proficuamente gestito anche al di fuori dei circuiti familiari, e nell’avere rilevato come talvolta, per le persone con disabilità, le relazioni familiari, lungi dall’essere emancipanti, possano essere fonte di oppressione, controllo e segregazione.
Il suo limite più grande, invece, consiste nell’incapacità di affrontare adeguatamente le sfide estreme poste dalle situazioni di disabilità mentali gravi.
Che poi la famiglia non possa più essere l’unica risposta ai bisogni di cura è un’acquisizione a cui stanno giungendo – sia pure per vie diverse da quelle percorse dagli esponenti della Vita Indipendente – anche coloro che si stanno cimentando con i temi del cosiddetto “Dopo di Noi”, espressione con la quale si designa la situazione in cui i genitori/familiari non sono più in condizione – perché impossibilitati o perché deceduti – di occuparsi dei propri congiunti con disabilità.
Costoro, infatti, non esprimono alcuna critica morale o d’altro tipo al lavoro di cura prestato dalle e dai caregiver familiari: si limitano semplicemente a considerare la circostanza che la persona con disabilità sopravviva al proprio caregiver, o che comunque, in alcune situazioni, non possa più essere supportata dal caregiver stesso, e si adoperano perché la presa in carico venga preparata quando il caregiver è ancora attivo, e garantita con soluzioni personalizzate, non segreganti, rispettose della dignità e della volontà della persona disabile.
Si potrebbero fare tante ulteriori osservazioni sulla vulnerabilità e sull’interdipendenza che caratterizzano tutti gli esseri umani, e che ci indurrebbero a scoprire come in concreto non esista alcun individuo al mondo che possa correttamente affermare che il lavoro di cura in qualche modo non lo riguardi personalmente. Ma il discorso diventerebbe troppo lungo. Ciò che invece deve essere opportunamente sottolineato è che il tema del lavoro di cura – quali che ne siano le modalità di svolgimento – non può essere tenuto fuori dal dibattito politico pubblico, e che è necessaria l’assunzione di una responsabilità sociale sia verso coloro che prestano cura (affinché il ruolo di caregiver non si traduca, per chi lo ricopre, in una compressione delle libertà individuali, tale da costituire una violazione dei suoi diritti umani), sia verso coloro che ne sono destinatari (perché venga loro garantita la necessaria assistenza; perché possano avere, per quanto possibile, un ruolo attivo nella definizione delle cure che vengono loro rivolte; perché la loro volontà, nel momento in cui sono in grado di esprimerla, venga considerata imprescindibile; e infine, perché nei casi di persone con disabilità con limitate o impedite capacità di autodeterminazione, le decisioni siano concordate con il rappresentante legale della persona con disabilità stessa).
Ciò che invece non sembra ancora sufficientemente evidente, e che invece sarebbe estremamente importante, è l’urgenza di adoperarsi affinché il lavoro di cura smetta di essere considerato una prerogativa femminile, e diventi un compito trasversale ai generi (un tema al quale chi scrive ha già accennato in un’altra recente riflessione ripresa sempre da questa testata). Anche quest’ultima istanza prende le mosse da un interrogativo morale: è un bene che la maggioranza della popolazione maschile venga, più o meno sistematicamente, esentata dai lavori di cura?
Per approfondire:
° La Cura Invisibile, blog che promuove il riconoscimento giuridico e la tutela del caregiver familiare.
° Simona Lancioni, Lavoro di cura e sacrificio di sé, in sito della UILDM Nazionale (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), Gruppo Donne UILDM, 14 aprile 2015 (ripreso da «Superando.it» il 15 aprile 2015, con il titolo L’immaginario collettivo non vede il lavoro di cura).
° Stefania Martani, Disabili, la venticinquesima ora di chi li assiste, in «La Repubblica.it», 13 aprile 2015.
° Simona Bellini, Noi caregiver, “invisibili tra gli invisibili”, chiediamo la Grazia!, in «Superando.it», 7 aprile 2015.
° Brunella Casalini, Etica della cura, dipendenza, disabilità, in sito di IAPh-Italia (sezione italiana dell’Associazione Internazionale delle Filosofe), 11 marzo 2015.
° Durante e dopo di noi: relazione sul seminario realizzato a Peccioli, a cura di Simona Lancioni, in sito di Informare un’H, 11 marzo 2015.
° Disabilità e “dopo di noi”. Strumenti ed esperienze, a cura di Francesca Biondi Dal Monte ed Elena Vivaldi, Collana “I Quaderni”, n. 61, Firenze, CESVOT, febbraio 2013.
° Giorgio Genta, A chi giova aver cura dei caregiver familiari?, in «Superando.it», 11 dicembre 2012.
° Massimiliano Verga, Zigulì. La mia vita dolceamara con un figlio disabile, Collana “Strade blu”, Milano, Mondadori, 2012.
° Caterina Botti, Prospettive femministe. Morale, bioetica e vita quotidiana, Torino, Espress, 2012.
° Brunella Casalini, Etica della cura, disability studies e approccio delle capacità, in «Persona e danno», 12 maggio 2010.
° Etica della cura. Riflessioni e testimonianze su nuove prospettive di relazione, a cura di Virginio Colmegna, Maria Grazia Guida, Alberto Ferrari, Cristina Sampietro, Collana “La cultura”, n. 686, Milano, Il Saggiatore, © 2010.
° Elisabetta Gasparini, L’assistenza personale per una vita indipendente, a cura di Barbara Pianca, Marghera (Venezia), Sezione UILDM di Venezia, © 2010.
° L’etica della cura. Tra sentimenti e ragioni, a cura di Corrado Viafora, Renzo Zanotti, Enrico Furlan, Collana “Scienze umane e sanità”, Milano, Franco Angeli, 2007.
° John Fischetti, Manifesto sulla Vita Indipendente delle persone con disabilità, sito di ENIL Italia (European Network on Independent Living), © 1996.
° Assistenti personali per una vita indipendente, a cura di Raffaello Belli, Milano, Franco Angeli, 2000.
° Nunzio Bombaci, Filosofia ed etica della CURA, in «Filosoficamente», Newsletter della Sezione di Filosofia e Scienze umane del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata, in sito UniMC – Università di Macerata, s.d.