Leggo sul quotidiano «la Repubblica» del 21 maggio scorso un articolo di Adriano Sofri intitolato Quei professori di sostegno considerati di Serie B, e dall’esperienza che deriva dall’essere stato un “uomo di scuola” e dall’avere vissuto in questi quarant’anni “in prima linea” il processo di integrazione a fianco delle famiglie dei ragazzi con disabilità, e in stretto contatto con dirigenti e docenti, vorrei esprimere un motivato dissenso alle critiche che l’autore dell’articolo rivolge all’intendimento del sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone, di istituire una specifica classe di concorso per il sostegno, contenuto nella Proposta di Legge C-2444 (Norme per migliorare la qualità dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità e con altri bisogni educativi speciali), presentata e sostenuta dalla FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali di Persone con Disabilità) e dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).
Oggi la realtà è che il docente di sostegno deve avere l’abilitazione per una qualsiasi classe di concorso, mentre dev’essere “contitolare” per il sostegno con docenti di discipline diverse dalle sue. Ad esempio un insegnante abilitato in educazione fisica deve fornire il necessario sostegno per l’inclusione dell’alunno con disabilità al docente di matematica o di lettere, o a quello di lingue straniere ecc. In che cosa, dunque, si potrà concretizzare la sua “contitolarità”? Come eserciterà il suo ruolo di sostegno nei confronti del collega? Non certo in rapporto alle conoscenze disciplinari, ma unicamente in riferimento alle sue competenze didattiche e relazionali rispetto alla disabilità dell’alunno.
Via via passando dalla scuola primaria a quella secondaria di primo e secondo grado, dove gli apprendimenti disciplinari diventano sempre più specifici, le difficoltà nello svolgimento di questo suo ruolo di contitolare per il sostegno aumentano e sono proprio queste difficoltà nel supportare il docente della disciplina a sviluppare un percorso inclusivo, che favoriscono la delega dell’alunno con disabilità da parte degli insegnanti titolari allo stesso docente di sostegno e il suo progressivo isolamento dal contesto della classe, ciò che lo porta sempre più spesso a svolgere le attività didattiche nella cosiddetta “aula di sostegno”, magari in compagnia degli altri alunni con disabilità dell’istituto.
Questo è ciò che avviene ora e, contrariamente a quanto sostiene Sofri nel suo articolo, non sarà l’istituzione dello specifico ruolo per il sostegno a favorire il meccanismo della delega e la “separazione” dell’“insegnante normale” dall’“insegnante speciale”, ma viceversa, come cercherò di spiegare, esso contribuirà proprio a eliminarlo.
Credo che tutti siano d’accordo nel ritenere che per una scuola realmente inclusiva occorra una maggiore specializzazione dei docenti, ma credo anche che tutti siano altrettanto d’accordo nel pensare che non sia possibile una specializzazione di tutti i docenti, con la conseguente eliminazione del docente di sostegno.
Da queste osservazioni nascono i contenuti della Proposta di Legge sostenuta da FAND e FISH, che prevede per i docenti titolari delle discipline una formazione di base e continua, che li prepari a un corretto approccio educativo-relazionale con l’alunno con disabilità, tale da renderli “capaci” di farsi responsabili dell’insegnamento disciplinare, sia pur con il supporto sul piano metodologico del docente di sostegno, prevedendo però per quest’ultimo una specifica specializzazione. Specializzazione, questa, che non può essere solo, come avviene ora, “general-generica”, ma deve comprendere anche conoscenze didattiche e competenze tecnico-metodologiche efficaci in riferimento alle specifiche disabilità; solo così, infatti, la “contitolarità” tra il docente di classe e quello di sostegno potrà essere reale e si potrà sviluppare una progettazione didattica efficace e inclusiva.
Il ruolo del docente specializzato per il sostegno, esperto in “metamodelli inclusivi”, non è quello dell’educatore, né quello del riabilitatore, e men che mai la sua preparazione dev’essere di tipo medico-sanitario, come sostiene Sofri nel suo articolo, ma quello di un docente esperto di didattica e docimologia [ramo della pedagogia collocabile tra le tecniche che si occupano dello studio dei sistemi di valutazione delle prove di verifica, N.d.R.], con specifiche competenze di pedagogia speciale, un progettista e attuatore di percorsi formativi, sviluppati e realizzati in team con i colleghi titolari delle discipline. Egli, tuttavia, potrà anche essere una “figura obiettivo” e un mediatore didattico per l’inclusione, capace di contribuire all’elaborazione di un POF [Piano dell’Offerta Formativa, N.d.R.] inclusivo e di rendere “accogliente” l’intero contesto.
Per essere efficace, l’azione didattica necessita di due competenze: quella disciplinare e quella metodologico-didattica. Di fronte a “complessità educative” come quelle che possono derivare dalla presenza in classe di un alunno con disabilità, può essere necessaria la contitolarità di più docenti, ma perché tale contitolarità sia reale, è necessario che ciascun insegnante sia portatore di specifiche competenze, complementari con quelle del collega.
Questa considerazione porta a prevedere la necessità di una classe di concorso che prescinda dal disciplinare, ma si fondi su competenze pedagogiche, metodologiche e didattiche, capaci di rendere efficaci e inclusivi gli insegnamenti disciplinari in presenza di alunni con disabilità.
Solo così potrà venir meno la possibilità della delega: chiarito, infatti, che gli insegnamenti disciplinari sono di esclusiva competenza del docente di classe, egli non potrà più delegare la sua funzione di insegnante di fronte all’alunno con disabilità, ma resteranno sue le responsabilità dell’apprendimento e della valutazione anche di quell’alunno, così come di tutti gli altri.
Sostenere poi che la figura di uno specializzato in pedagogia speciale, esperto in metamodelli di apprendimento, didattica, metodologie e tecniche per l’insegnamento inclusivo sia “altro” rispetto a un vero docente, è difficile da sostenere: significherebbe infatti dichiarare non insegnante proprio chi supporta la classe e l’intera scuola, nelle capacità di fornire insegnamenti inclusivi.
La formazione obbligatoria in servizio di tutti i docenti sulle tematiche generali per l’inclusione, la specializzazione dei docenti per il sostegno – che personalmente tornerei a chiamare “specializzati” – e la creazione della specifica classe di concorso definiscono con chiarezza i compiti e le competenze dei diversi ruoli, dando una nuova dignità al ruolo del sostegno e mettendolo al servizio della classe e della scuola per lo sviluppo di un sistema scolastico veramente inclusivo e non “al servizio” del ragazzo con disabilità, sostituendosi ai docenti di classe.
Infine, ci è difficile comprendere l’affermazione di Sofri circa il fatto che la scelta del sostegno non possa essere una scelta definitiva, ma debba continuare a essere una scelta “temporanea”, affermazione che potrebbe trovare giustificazione solo nella frustrazione che attualmente può derivare ai docenti di sostegno, spesso impreparati ad assolvere al compito, quando si vedono emarginati dal contesto dei colleghi, che li considerano più “badanti” che insegnanti e li isolano con il “loro” allievo, cose, queste, alle quali il ruolo di sostegno porrà rimedio, definendo – come detto – compiti e competenze, contrariamente a quanto affermato da Sofri.
Un’altra giustificazione dell’affermazione che l’incarico di sostegno dovrebbe essere non definitivo potrebbe derivare dalla constatazione che, per molti, fare il docente di sostegno è stata spesso una scelta “occasionale”, quando non “opportunistica”, o un “ripiego”, tutte “motivazioni” che poco hanno a che fare con l’“interesse” con il quale, di norma, ci si prepara e si sceglie un lavoro. Non penso infatti che sia ciò a far venire meno la convinzione nella validità della nostra scelta di istituire uno specifico ruolo di sostegno, una scelta fatta da chi ha creduto da sempre – e crede – nell’inclusione scolastica e sociale dei ragazzi con disabilità, che in questi anni ha operato per difendere la “via italiana” all’inclusione, e che oggi propone una revisione del modello di inclusione il quale – fuori da preconcetti ideologici e muovendo unicamente dall’analisi e dalla riflessione critica sui suoi punti di forza e di debolezza – ne migliori l’efficacia e l’efficienza, garantendo realmente pari opportunità nel diritto allo studio dei giovani con disabilità, e con professori specializzati di “serie A”.