Quel che si apprende, limitandosi a leggere i fatti di cronaca su casi di licenziamento di lavoratori gravemente malati, è a dir poco desolante. Si resta sgomenti per l’assenza di responsabilità sociale d’impresa, di etica del lavoro, di rispetto della dignità del lavoro e dell’essere umano in quanto tale.
Ancora negli ultimi mesi, infatti, vi sono stati casi di lavoratori, con patologie oncologiche, licenziati per avere superato il periodo di comporto per malattia [per “periodo di comporto” si intende quel periodo di tempo durante il quale il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto di lavoro, nonostante che l’esecuzione della prestazione venga sospesa, per un motivo inerente alla sua persona, N.d.R.] oppure per il fatto che siano stati proprio gli unici ad essere licenziati per non meglio chiariti “motivi economici”. In un certo numero di situazioni si è ottenuta la reintegra dalle aziende, dopo le segnalazioni dei sindacati e, soprattutto, la pressione mediatica.
I temi della tutela della salute in relazione alla conservazione del lavoro presentano questioni più ampie e complesse che dovrebbero essere valutate in modo organico e completo, con un approccio multidisciplinare di intervento, in quanto richiamano diversi àmbiti di riflessione, tra cui l’etica dei diritti umani, le scienze della salute, le scienze demografiche e sociali, le scienze economiche e politiche: ora più che mai, visto che ci sono da affrontare la necessità di rigenerare la competitività dei territori per far fronte alla crescente domanda di bisogni sociali per l’invecchiamento, la non autosufficienza, la precarizzazione del lavoro, l’impoverimento, l’emarginazione e il disagio.
Non si può dimenticare, inoltre, che il tema delle tutele del lavoratore con patologie gravi è connesso anche alla necessità di un cambiamento di cultura generale sull’affermazione dei diritti delle persone con disabilità, come previsti dalla relativa Convenzione ONU del 2006 (ratificata dal nostro Paese con la Legge 18/09) e dal Programma Biennale di attuazione della stessa (DPR del 4 ottobre 2013).
Il presente approfondimento ha l’obiettivo di evidenziare come tutti i casi di licenziamento che possono coinvolgere una persona con gravi problemi di salute presentano non poche criticità applicative. Alcuni più di altri.
Il licenziamento discriminatorio, vietato, tra l’altro, dal Decreto Legislativo 216/03 (emanato in Attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, come modificato dal Decreto Legge 59/08), così come il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione, pone una serie di aspetti delicati: l’uno, ad esempio, in ordine alla presentazione delle prove; l’altro soprattutto per le valutazioni medico legali e per le difficoltà nell’individuazione concreta di nuove mansioni, compatibili con lo stato di salute, che non sono motivate sempre e solo dalle dimensioni aziendali, ma anche dall’assenza di “adattamenti ragionevoli”.
Ancora più complesso, per motivi diversi, è il licenziamento per superamento del periodo di comporto: tanto la normativa, quanto le clausole contrattuali inserite nel corso degli anni, sono infatti frammentarie ed eterogenee, nonostante non sia mancato l’impegno del Legislatore, delle associazioni di rappresentanza e delle stesse parti sociali.
Già nel 2003 si iniziò a prestare attenzione al problema delle maggiori tutele necessarie a fronte di patologie gravi dei lavoratori: lo fece l’articolo 46, comma 1, lettera t) del Decreto Legislativo 276/03 che – aggiungendo l’articolo 12 bis alla Legge 61/00 – riconobbe il diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in lavoro a tempo parziale, verticale o orizzontale per chi ricevesse una diagnosi di patologia oncologica, ma conservando/recuperando una ridotta capacità lavorativa.
Nonostante l’utilizzo di un linguaggio non del tutto appropriato dal punto di vista medico, era chiaro che il Legislatore aveva ben presente il problema e le statistiche sul numero di persone colpite da tali malattie.
L’interessamento per questioni così importanti lo mostrò anche il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che, nel 2005, emise la Circolare n. 40, entrando nel dettaglio proprio sul periodo di comporto e sul ruolo della contrattazione collettiva, ricordando che in caso di malattia il datore di lavoro ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’articolo 2118 del Codice Civile solo una volta che sia decorso il periodo stabilito dalla legge, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità.
Alle determinazioni dell’autonomia collettiva venne così demandata la possibilità di estensione del suddetto periodo nelle particolari ipotesi di malattie lunghe, caratterizzate dalla necessità di cure post-operatorie, terapie salvavita e di una conseguente gestione flessibile dei tempi di lavoro.
Nel 2008 il Codice Etico per promuovere nuove misure a tutela dei lavoratori affetti da patologie oncologiche (in Bollettino Adapt, Speciale n. 10, del 19 dicembre 2008) affrontò, oltre al periodo di comporto per malattia, anche il diritto all’assegnazione di mansioni più compatibili con lo stato di salute della persona e l’eventuale riduzione della capacità lavorativa.
La disposizione specifica del citato Codice Etico amplia «i beneficiari», specificando che «ai dipendenti affetti da patologia oncologica […] viene riconosciuto un prolungamento del periodo di comporto, in funzione dell’anzianità di servizio, nei casi di patologia di natura oncologica di rilevante gravità, ictus o sclerosi multipla gravemente invalidanti, trapianti di organi vitali ed AIDS conclamata e per le patologi gravi richiedenti terapie salvavita (come ad esempio la chemioterapia) secondo criteri e modalità da concordare con i responsabili delle risorse umane».
Riconosce, altresì, «il diritto all’esclusione dal computo, al fine della conservazione del posto di lavoro, dei periodi di degenza ospedaliera e delle giornate di day hospital usufruite per la somministrazione di terapia salvavita (ad esempio la chemioterapia o l’emodialisi)».
In tutti i Contratti del settore pubblico, e in molti di quello privato, sono aumentate le clausole che richiamano queste indicazioni. Se ne riprendono qui solo alcuni, a titolo esemplificativo, per passare poi a una serie di considerazioni.
Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) del Comparto Ministeri (articolo 21, comma 7 bis) stabilisce: «In caso di patologie gravi che richiedano terapie salvavita ed altre ad esse assimilabili secondo le indicazioni dell’ufficio medico legale della azienda sanitaria competente per territorio, come ad esempio l’emodialisi, la chemioterapia, il trattamento per l’infezione da HIV- AIDS nelle fasi a basso indice di disabilità specifica (attualmente indice di Karnosky), ai fini del presente articolo, sono esclusi dal computo dei giorni di assenza per malattia i relativi giorni di ricovero ospedaliero o di day – hospital ed i giorni di assenza dovuti alle citate terapie, debitamente certificati dalla competente Azienda sanitaria locale o struttura convenzionata. In tali giornate il dipendente ha diritto in ogni caso all’intera retribuzione prevista dal comma 7, lettera a)».
In senso analogo, l’articolo 17, comma 9, del CCNL Comparto Scuola prevede: «In caso di gravi patologie che richiedano terapie temporaneamente e/o parzialmente invalidanti sono esclusi dal computo dei giorni di assenza per malattia, oltre ai giorni di ricovero ospedaliero o di day hospital anche quelli di assenza dovuti alle conseguenze certificate delle terapie. Pertanto per i giorni anzidetti di assenza spetta l’intera retribuzione».
E ancora, il Contratto dei Dipendenti del Comune di Torino (articolo 9) dettaglia: «I giorni di assenza dal lavoro, anche a seguito di ricovero ospedaliero o di day hospital, determinati dalla necessità di sottoposizione a terapie salvavita, ivi compresi i controlli con effetti invasivi, a carattere continuativo, periodico o episodico, indotte da patologie gravi quali, a titolo esemplificativo forme tumorali, insufficienze o malattie renali, insufficienze respiratorie, anemia mediterranea, cardiopatie, AIDS, trapianti di organi, non sono più computabili quali periodi di malattia ex art. 21 del CCNL 1994/1997. Rientrano in tale fattispecie non solo le giornate di effettiva applicazione terapeutica ma anche le assenze indotte dalle terapie».
Per quanto poi riguarda il settore privato, il CCNL degli Studi Professionali (articolo 98) specifica che: «Durante la malattia i lavoratori non in prova hanno diritto alla conservazione del posto per un periodo massimo di 180 giorni decorrenti dal giorno di inizio di malattia e comunque cumulando nell’anno solare i periodi di malattia inferiore a 180 giorni. Al fine del calcolo per la determinazione del periodo di comporto, per anno solare si intende un periodo di 365 giorni partendo a ritroso dell’ultimo evento morboso. Nei casi di assenze dovute a patologie oncologiche di rilevante gravità, ictus o sclerosi multipla gravemente invalidanti, distrofia muscolare, morbo di Cooley ovvero periodi di degenza ospedaliera determinanti da trapianti chirurgici di organi vitali, il periodo di comporto di cui al precedente capoverso sarà elevato di ulteriori 90 giorni, durante i quali verrà corrisposto al lavoratore il 100% della retribuzione per i primi due mesi e il 50% della retribuzione per il terzo mese. I periodi di degenza ospedaliera, i giorni di assenza per malattia sia le giornate di day hospital che quelle usufruite per la somministrazione di terapie salvavita come la chemioterapia o l’emodialisi non sono computati ai fine della determinazione del suddetto periodo di comporto. In assenza della richiesta di aspettativa di cui all’art. 103 del contratto stesso e trascorsi i periodi di cui ai commi precedenti e perdurando la malattia, il datore di lavoro potrà procedere al licenziamento con la corresponsione delle indennità di cui al presente contratto».
Appare evidente la terminologia: «gravi patologie», «patologie oncologiche», «utilizzo di terapie salvavita e assimilabili», «effetti invalidanti temporanei o permanenti», oppure l’indicazione di alcune patologie e non di altre.
Va ricordato, per altro, che, al momento, continua a permanere l’assenza di un elenco completo delle cosiddette “patologie gravi”. Vi sono solo taluni interventi normativi parziali: il DPR n. 915 del 23 dicembre 1978 (Testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra) con tabelle annesse; l’elenco delle malattie considerate croniche ed invalidanti ai sensi dell’articolo 5, comma 1, lettera a) del Decreto Legislativo 124/98.
Un’indicazione più dettagliata è inserita nell’articolo 2 del Decreto Ministeriale 278/00 (Regolamento recante disposizioni di attuazione dell’articolo 4 della L. 8 marzo 2000, n. 53, concernente congedi per eventi e cause particolari), secondo cui, per «gravi motivi familiari» si intendono anche le seguenti patologie: «1) patologie acute o croniche che determinano temporanea o permanente riduzione o perdita dell’autonomia personale, ivi incluse le affezioni croniche di natura congenita, reumatica, neoplastica, infettiva, dismetabolica, post-traumatica, neurologica, neuromuscolare, psichiatrica, derivanti da dipendenze, a carattere evolutivo o soggette a riacutizzazioni periodiche; 2) patologie acute o croniche che richiedono assistenza continuativa o frequenti monitoraggi clinici, ematochimici e strumentali; 3) patologie acute o croniche che richiedono la partecipazione attiva del familiare nel trattamento sanitario; 4) patologie dell’infanzia e dell’età evolutiva aventi le caratteristiche di cui ai precedenti numeri 1, 2, e 3 o per le quali il programma terapeutico e riabilitativo richiede il coinvolgimento dei genitori o del soggetto che esercita la potestà».
La Direzione Generale per l’Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro (con l’Interpello n. 16 del 10 giugno 2008) ha risposto a un quesito specifico in merito al significato e alla portata dell’espressione «grave infermità», come da articolo 4, comma 1 della Legge 53/00, ribadendo che, «in assenza di riferimenti legislativi che forniscano un elenco esaustivo delle patologie riconducibili al concetto di “grave infermità” […] si ritiene che il richiedente debba fornire all’Ufficio di appartenenza una certificazione di accertamento clinico-diagnostico, rilasciata dalla competente struttura medico-legale, che potrà esprimere il proprio giudizio circa la natura dell’infermità, facendo riferimento alla documentazione sanitaria proveniente da strutture sanitarie pubbliche, in analogia alle disposizioni normative previste per altre ipotesi in cui sia necessaria una attestazione ufficiale di “grave infermità” (si veda, ad es., il D.M. 26 marzo 1999 -Ministero ella [sic] Difesa)».
Il riferimento alle terapie salvavita è stato ripreso in molti Contratti del settore pubblico e in taluni di quello privato, ma va detto che anche in questo caso mancano chiarimenti normativi e indicazioni medico-legali precise circa il significato da attribuire a tali termini.
Normalmente si citano come esempi la chemioterapia e l’emodialisi; talune volte viene affiancata la dicitura «altre assimilabili» (anche se dal punto di vista medico legale non è chiaro cosa voglia o possa intendersi per «assimilabilità»): in ogni caso andrebbe chiarito se occorre fare riferimento alle sole terapie che impediscono o rallentano “l’evento morte”, oppure a tutte quelle terapie che impediscono la determinazione di effetti invalidanti più gravi della patologia progressiva diagnostica e che, quindi, “salvano la vita” e la qualità della stessa in un’accezione più ampia.
Vi sono poi documenti nei quali si intravede la “buona volontà” delle parti sociali, ma che lasciano tuttavia perplessi circa i princìpi di non discriminazione ed equità.
Uno fra tutti – sempre come mero esempio – è il CCNL per il Personale di Terra del Trasporto Aereo e delle Attività Aereoportali dell’8 luglio 2010 (relativamente ai lavoratori affetti da patologie oncologiche, sclerosi multipla o distrofie muscolari). Vi si legge: «Le Parti, nel sottolineare la comune volontà di differenziare situazioni di patologie particolarmente gravi e/o invalidanti da affezioni in forme meno acute e/o croniche, stabiliscono che per i lavoratori affetti da patologie oncologiche, sclerosi multipla o distrofie muscolari, le disposizioni relative al comporto per malattia debbano intendersi nel senso che i limiti complessivi di assenze aventi effetti sia sulla conservazione del posto di lavoro che sul relativo trattamento economico, debbano intendersi raddoppiati in presenza di assenze per malattia documentalmente ascrivibili a dette patologie».
In merito sono opportune alcune osservazioni. Ci si chiede, innazitutto, se le patologie indicate espressamente debbano considerarsi o meno un elenco tassativo, come sembra far propendere la frase «nel sottolineare la comune volontà di differenziare situazioni di patologie particolarmente gravi e/o invalidanti da affezioni in forme meno acute e/o croniche».
Si fa notare come il termine «patologie oncologiche» comprenda anche neoplasie non maligne che richiedono cure non invasive, né prolungate tanto quanto altre patologie non citate e non necessariamente «forme croniche» (termine che, nella disposizione, sembra essere usato come sinonimo di persona “senza speranza” e “costo sociale”).
Il raddoppio dei giorni di comporto «in presenza di assenze per malattia documentalmente ascrivibili a dette patologie», nuovamente, non indica nulla! Documentalmente ascrivibile da chi? Dai medici delle ASL, dagli specialisti (che nel caso della sclerosi multipla sono, tra gli altri, il neurologo e il fisiatra)? Quali assenze sono «ascrivibili»? La febbre alta dovuta ai farmaci? L’astenia che impedisce di stare in piedi?
Appaiano pertanto evidenti la necessità e l’urgenza di colmare le gravi lacune esistenti, quantomeno sul concetto e sull’eventuale elenco di “gravi patologie” e di “terapie salvavita”. E anche l’elaborazione di linee guide per tutti i medici legali rappresenta un essenziale punto di partenza.
Nel frattempo le parti sociali dovrebbero utilizzare formulazioni “non escludenti”, facendo riferimento a situazioni che contemperassero l’esigenza di specificità e determinatezza con quella di eguaglianza e non discriminazione, oltreché individuando clausole che avessero un senso nel concreto delle varie realtà, ad esempio dal punto vista medico.
Solo cosi si potrà garantire maggiore efficacia alle disposizioni stesse, evitare dubbi interpretativi e trattamenti differenziati sia tra gli stessi lavoratori con patologie oncologiche, sia tra questi ultimi e i lavoratori con malattie parimenti gravi, tralasciando sempre i “cronici” su cui molto andrebbe scritto e fatto.
I problemi, però, non sono solo quelli appena descritti. Vi sono infatti ancora Contratti Collettivi che risultano inadeguati in materia poiché non prevedono nessuna clausola per cui il lavoratore debba ricorrere a ferie e permessi per poter assentarsi dal lavoro, nonostante sia notorio che l’assenza sia dovuta ai cicli di terapia.
Per l’aspettativa non retribuita (volta quantomeno a prolungare il periodo di conservazione del posto di lavoro e utile in situazioni di salute che richiedono cure più lunghe) è necessaria la richiesta del lavoratore stesso, magari impegnato in cure stressanti e dolorose. Il datore di lavoro non ha alcun obbligo di informare della possibilità, così come non ha alcun obbligo di avvisare dell’avvicinarsi della scadenza del periodo di comporto.
Spesso, poi, la persona si trova senza più lavoro, con nessuna copertura assicurativa/previdenziale (per assenza dei requisiti previsti dal sistema previdenziale), senza opportunità di riqualificazione e di reinserimento lavorativo (non solo per la capacità lavorativa, ma per questioni anagrafiche, geografiche ecc).
Quali le possibili soluzioni? Come prevedere una tutela più uniforme? Come non caricare sui datori di lavoro i costi sociali delle malattie?
Dall’esame di alcune esperienze straniere posso derivare utili spunti di operatività. Ad esempio, la legislazione inglese in tema di diritti delle persone con disabilità, regolata dal Disability Discrimination Act (DDA) del 1995, è stata integrata – nel 2005 – con una serie di disposizioni che hanno esteso la tutela per le persone con patologie progressive (ad esempio cancro, HIV, sclerosi multipla), a partire dal momento stesso della diagnosi e non da quando si verifica una compromissione della capacità lavorativa.
Con tale normativa è stata vietata, fra l’altro, la discriminazione diretta di rifiutare l’assunzione di una persona perché ha una particolare patologia progressiva, prevedendo tutele nelle procedure di selezione del personale.
Il Disability/Diversity Management – inteso come flessibile organizzazione del rientro del lavoratore in azienda, modulato da interventi e azioni specifiche di tipo riabilitativo, ergonomico, organizzativo, in relazione alle concrete necessità, professionalità e con i cicli produttivi aziendali – è un processo ormai consolidato in altri Paesi dove numerosi studi hanno dimostrato che esso è vantaggioso per tutti gli attori in campo: prevede infatti un contenimento delle spese per i Governi; il risparmio economico e l’aumento della produttività per i datori di lavoro; una miglior protezione dell’occupazione dei lavoratori.
Su questi temi il nostro Paese ha un ritardo almeno ventennale. Cercare di ridurre il gap è una sfida da intraprendere. Possibilmente in modo più convinto di quanto non sia stato ancora fatto.
Di Silvia Bruzzone suggeriamo anche la lettura di Salute Disabilità Lavoro. Parità di trattamento, Conciliazione, Reasonable accomodation. Quali diritti? Come chiederne il rispetto?, libro recentemente pubblicato, del quale ci siamo occupati ampiamente anche nel nostro giornale.