Trascorso da un pezzo il 2 Aprile [Giornata Mondiale per la Consapevolezza dell’Autismo, N.d.R.] e calato una sorta di (scontato?) blackout sull’iter legislativo legato all’approvazione della legge sull’autismo [Disegno di Legge n. 344, “Disposizioni in materia di diagnosi, cura e abilitazione delle persone con disturbi dello spettro autistico e di assistenza alle famiglie”, in discussione alla Camera, N.d.R.], che di quella data simbolica aveva rappresentato il leit-motiv, continua – sfibrante – il calvario di tante famiglie, costrette a rivolgersi ai Servizi Sociali e Sanitari, nella speranza di rendere gestibile una realtà che il trascorrere del tempo e il procrastinare degli interventi necessari rendono sempre più critica, fino a determinare condizioni di vera e propria emergenza.
Negare un supporto adeguato a una persona autistica, delegando troppo a lungo ogni responsabilità alle famiglie, produce su queste ultime una pressione intollerabile, destinata, prima o poi, ad affievolire ogni risorsa economica e morale. Un intervento socio-sanitario e/o educativo carente ha, infatti, un impatto gravoso non solo sulle persone più vulnerabili – e certamente tali sono quelle con ASD (Autism Spectrum Disorders, ovvero “disturbi dello spettro autistico”), ma anche su coloro i quali – genitori, fratelli/sorelle ecc. – viene a mancare quel supporto di servizi e interventi indispensabili a garantire la continuità e la qualità di cura necessarie perché i loro cari vivano una vita adulta dignitosa.
Lasciare sola la famiglia ad affrontare i complessi bisogni legati all’autismo non promuove affatto l’inclusione, semmai estende a tutti i suoi componenti l’esclusione e l’isolamento!
Pur concordando la giurisprudenza nazionale e internazionale sul fatto che l’accesso ai diritti fondamentali della persona non può essere negato ad alcuno sulla base della disabilità, si può affermare, senza tema di smentite, che ogni giorno in tutto il mondo – in particolare per effetto di un gravissimo deficit di conoscenza – i soggetti con autismo siano discriminati e vedano negate le opportunità di cui godono, per fortuna, molte altre persone. Prevale la tendenza a minimizzare l’entità dei problemi e a nascondere i casi di abuso e abbandono.
In Italia – al di là delle rituali dichiarazioni propagandistiche, rilanciate soprattutto in occasione di alcuni eventi speciali – la realtà dice che poco o nulla viene messo a disposizione degli adulti con autismo, costretti a vivere in casa, con genitori non più giovani, o ad adattarsi a situazioni transitorie, spesso onerose per le famiglie.
Con queste premesse, perché sorprendersi, allora, se all’appello drammatico che proviene da nuclei familiari sempre più disorientati e soli, si risponde in genere con una sorta di do ut des, rappresentato da una confusa, sbrigativa e inadeguata offerta di istituzionalizzazione che, lungi dal costituire una risposta efficace ai bisogni specifici delle persone autistiche, rappresenta verosimilmente il viatico verso un ulteriore peggioramento della loro qualità di vita, con il rischio di favorire una drammatica cancellazione sociale?
La “soluzione” suggerita – che paradossalmente ricorda molto da vicino quella adottata su larga scala per le persone anziane non autosufficienti – se ubbidisce a una logica (pur perversa) sotto il profilo economico, non risolve affatto l’autismo, né risolve l’emergenza: il danno procurato ai nostri figli, e i costi sociali che ne derivano si innalzano, anzi, esponenzialmente!
Ben altre caratteristiche dovrebbe assumere la presa in carico delle persone con disturbi dello spettro autistico: essere competente, continuativa, tale da rendere certa l’affermazione delle condizioni indispensabili per raggiungere un apprezzabile grado di autonomia.
Sappiamo bene che acquisizioni significative di competenze possono verificarsi anche in età adulta, mettendo in campo un processo abilitativo sistematico, ma questa esigenza è troppo spesso contraddetta da contesti di accentuata impronta psichiatrica, vere e proprie enclaves in cui è pressoché impossibile rinvenire quell’intervento cognitivo comportamentale raccomandato dalla comunità scientifica internazionale.
Pur in presenza di lodevoli eccezioni, lo standard che accomuna svariate realtà residenziali esistenti nel nostro Paese è contrassegnato, dal punto di vista qualitativo, da caratteristiche molto diverse rispetto all’approccio garantito, per esempio, da alcune fondazioni sorte negli ultimi anni (per altro inaccessibili, non fosse che per ragioni economiche, alla stragrande maggioranza delle famiglie).
Di norma “il modello” prevalente è rappresentato infatti da una gestione educativa (e medica) condotta – quando c’è – in modo saltuario e senza l’applicazione di metodologie scientificamente fondate.
Uscire da una condizione così marginalizzante impone a tutti una profonda riflessione. L’obiettivo dev’essere quello di andare oltre la liturgia assistenziale fondata su un modo di operare improvvisato, privo di programmazione e controllo, caratterizzato da una delega assoluta che coinvolge non solo le famiglie (e questo umanamente si può comprendere…), ma addirittura le Istituzioni, che sempre più spesso si ritagliano il ruolo di meri erogatori economici di un servizio la cui gestione, per il resto, è quasi completamente monopolizzata da cooperative, privati ecc., operanti nel settore. Eppure la spesa per l’erario pubblico di ogni ospite inserito in un centro residenziale è, come minimo, di 5.000 euro al mese: un affare? Per chi?
Considerare “inevitabile” questo spreco di risorse che, con tutta evidenza, non è solo economico, costituisce un errore imperdonabile. Da qui la necessità di un immediato cambio di passo, reso ancora più urgente dal ripetersi di episodi dolorosi che sarebbe offensivo trattare alla stregua di semplici fatti di cronaca.
L’ultimo evento drammatico è avvenuto pochi giorni fa, la sera del 29 maggio. «Il Tempo.it»” lo ha riassunto con questo titolo: Madre e figlio giù dal “ponte dei suicidi”. Lui, autistico, scavalca la balconata. Lei, choccata, lo segue nel vuoto. A fondo pagina si legge poi: «Sembrerebbe che il ragazzo a causa dell’autismo fosse seguito da una struttura neuropsichiatrica. La madre avrebbe vissuto in simbiosi con il figlio, assorbendo i problemi del ragazzo, senza molte amicizie a causa della sua malattia, a cui sembrava non ci fosse soluzione. E sempre insieme, hanno deciso di farla finita».
Quanto queste morti ci appartengono? Quante responsabilità pesano su chi, con la sua inettitudine, ha, ancora una volta, lasciati soli quella madre e quel figlio, spingendoli fino al sacrificio estremo? Quanto dovremo aspettare prima che gli appelli di centinaia di migliaia di famiglie siano accolti da una classe politica negligente, ipocrita, incapace di provare vergogna della sua pochezza e di esprimere un sussulto di dignità perfino di fronte alla morte?
Tutti gli indicatori scientifici concordano sulla necessità di garantire alle persone autistiche una presa in carico di elevato spessore abilitativo: l’intervento cognitivo comportamentale non può essere sospeso, o peggio ancora interrotto, al compimento della maggiore età, essendo l’autismo – come tutti sanno – un disturbo long life, destinato cioè a durare per l’intero arco della vita.
Da questa sollecitazione non può non scaturire l’obbligo (obbligare è altro, rispetto a suggerire), per i partner privati, di assicurare – per un tempo congruo e non simbolico – la presenza, all’interno delle strutture in cui operano, di un qualificato tecnico dell’autismo, in possesso di certificate esperienze nel campo della residenzialità adulti, portatore di un modello educativo di riconosciuta e collaudata efficacia, in grado di incanalare un investimento di indiscutibile impatto umano ed economico, verso una direzione che non può continuare a essere quella dell’assistenzialismo fine a se stesso e della routine quotidiana, che non garantiscono ai nostri figli l’acquisizione di abilità e competenze utili e fruibili.
Continuare a eludere questo nodo è segno di grande superficialità, perché – con tutta evidenza – è dai programmi che devono scaturire le strutture e non viceversa! Non va dimenticata, altresì, l’importanza che assume la gestione della parte medica, tanto più se si tiene conto che in una componente nient’affatto irrilevante della psichiatria ufficiale permangono antiche tare ideologiche, alle soglie di un vero e proprio stigma, fondate sul presupposto che l’autismo non sia altro che una malattia mentale e che come tale vada contrastato, non di rado attraverso un pesante intervento farmacologico. Ecco perché è tempo che nelle comunità sia garantita la presenza, o quanto meno la consulenza, di un neurofarmacologo di riconosciuta competenza nel campo dei disturbi dello spettro autistico.
Per realizzare l’obiettivo di una corretta presa in carico, non si può prescindere dalla costruzione di una rete socio-sanitario-educativa di sostegno, a condizione di non perpetuare il modello a cui spesso siamo stati abituati negli ultimi anni. La rete, in altri termini, non può continuare ad essere un omnibus indistinto, un’appendice burocratica da utilizzare una tantum al solo verificarsi di scadenze imposte dal calendario; né può diventare una confusa agorà in cui confluiscono moltitudini di soggetti, tra i quali non di rado si stabiliscono, e si radicano, incompatibilità e diatribe finalizzate al solo discutibile riconoscimento personale di mansioni e cariche, senza alcun vincolo di indirizzi comuni.
Al contrario, per essere all’altezza della sfida, la rete deve fondarsi sull’effettivo coordinamento tra attori diversi (figure professionali, enti, istituzioni e associazioni), che lavorando in sinergia, possano superare una visione unidirezionale e autoreferenziale, per raggiungere la piena condivisione di progetti e strategie.
All’interno del processo descritto va rivitalizzato, tra l’altro, il ruolo delle associazioni, che possono e devono svolgere una funzione propulsiva e autonoma: non si tratta qui di disconoscere ciò che è stato fatto, ma di pianificare ciò che c’è ancora da fare e non vi è chi non abbia chiaro che da fare c’è ancora molto, a partire dalla ovvia constatazione che a un genitore ciò che preme maggiormente è la qualità del servizio erogato più che la sua generica esistenza, né può essere per lui una buona prospettiva quella di rivendicare un diritto esigibile in un posto brutto e inadeguato!
Una rete di servizi efficace deve dunque essere coordinata da un tecnico esterno autorevole, chiamato a valutare periodicamente il progredire dell’abilitazione, per evitare ogni rischio di irrigidimento e cristallizzazione. I suoi report sono destinati a rappresentare il punto di riferimento che le Istituzioni dovranno assumere nel giudicare la congruità dell’intervento offerto, pena il non rinnovo della convenzione di accreditamento.
I genitori – non avendo dato in appalto ad alcuno i loro figli – hanno il diritto-dovere di partecipare attivamente al monitoraggio e alla valutazione del percorso abilitativo, all’interno del quale costituiscono un’importante risorsa critica e costruttiva.
È necessario operare in modo condiviso, perché la struttura non sia un luogo alienante, ma piacevole e accogliente, che coinvolge la persona autistica in un vero e proprio progetto di vita da costruire ogni giorno, a misura della sua condizione e dei suoi bisogni.
Ciò che i genitori chiedono per i loro figli è un’inclusione vera e non solo “annunciata”; diritti e opportunità di sviluppare il massimo delle potenzialità individuali, vivere una vita dignitosa e piena, come quella di chiunque altro.
Il carico da cui le famiglie vogliono essere sollevate non è la disabilità dei loro figli, ma la loro ingiustificata esclusione dalla piena partecipazione nella società, perché la vera disabilità sta proprio in questa odiosa disuguaglianza, che non tiene conto che il futuro non è appannaggio di alcuni ma appartiene a tutti!
Padre di una persona adulta con autismo, insegnante e scrittore, autore del libro Mio figlio è autistico (Vannini, 2013). Cura un blog dedicato anch’esso all’autismo.