I caregiver: un tassello importante del puzzle

di Simona Lancioni*
«Nel nostro Paese - scrive Simona Lancioni - il percorso per il riconoscimento della figura del caregiver familiare e per l’introduzione di qualche misura a sua tutela, incontra diverse resistenze, provenienti talora dagli stessi caregiver, talora da alcune persone con disabilità, in altri casi dal mondo femminile. Ma in un moderno sistema di welfare, costruito sul riconoscimento del diritto di ogni persona a ricevere e prestare cura, il caregiver è un tassello importante del puzzle e queste resistenze andrebbero superate»
Casregiver con persona disabile
Una caregiver familiare mentre assiste un proprio caro con disabilità

I caregiver esistono sin dalla notte dei tempi, ma a volte sembra quasi che la notte dei tempi se li sia inghiottiti, visto che spesso, troppo spesso, è necessario spiegare chi sono.
Una delle definizioni più utilizzate ne parla come di quelle figure, per lo più donne, che, in àmbito domestico, e a titolo gratuito, si prendono cura in modo significativo e continuativo di un congiunto non autosufficiente a causa di una grave disabilità. È una definizione corretta, ma può anche essere ingannevole, perché, ad assumerla in modo acritico, si può finire col credere che si stia parlando di un gruppo di persone omogeneo, e che tra l’uno e l’altro non vi siano differenze rilevanti. Ovviamente non è così: i caregiver non sono tutti uguali.

In un recente post pubblicato su «La Cura Invisibile», il blog che promuove il riconoscimento giuridico e la tutela del caregiver familiare in Italia, si distinguono due tipi di caregiver familiare (ai quali corrispondono anche esigenze di tutela diverse): quelli che si prendono cura di una persona con una patologia progressiva ad esito luttuoso (per i quali sono necessarie tutele crescenti, che tengano conto della progressione dell’impegno di cura), e quelli che si prendono cura di una persona con una grave disabilità che non comporta l’imminente decesso, che tende a stabilizzarsi, e che implica «necessità assistenziali imponenti per l’intero arco di vita» (per i quali si rendono necessarie tutele permanenti).
Le tutele proposte nel post in questione riguardano il diritto alla salute, il diritto al lavoro e un sostegno al reddito (Le tutele per i caregiver familiari, in La Cura Invisibile, 11 maggio 2015). Eppure nemmeno questa distinzione è sufficiente a dare conto delle tante e diverse situazioni in cui operano i caregiver. Vediamo alcuni esempi.
Molte persone con disabilità hanno bisogno di assistenza notturna, ma un conto è avere bisogno di un’assistenza vigile (che obbliga chi assiste a stare sveglio tutta la notte), altra cosa è svegliarsi alcune volte per aiutare la persona con disabilità a cambiare posizione, e poi rimettersi a dormire. Un conto è essere l’unico soggetto responsabile della cura di una persona non autosufficiente, altro conto è essere il caregiver principale, supportato da altre figure con impegni minori. Un conto è doversi occupare di una sola persona non autosufficiente, altro conto è dover prestare assistenza a più persone non autosufficienti (caso non infrequente in famiglie interessate da patologie genetiche molto severe sotto il profilo delle limitazioni dell’autonomia, o nelle quali ci siano più persone anziane). E ancora, un conto è prestare assistenza potendo contare anche su qualche servizio pubblico, altra situazione è operare in un contesto nel quale i servizi pubblici sono completamente assenti. Un conto, infine, è prestare cura a una persona con una disabilità che non comporta significativi dolori fisici, altra questione è invece – soprattutto sotto il profilo psicologico – sostenere un confronto quotidiano con situazioni che causano una forte e incessante sofferenza.

Cartina fisica della Norvegia
«La realtà dei vari tipi di caregiver – scrive Simona Lancioni – si presenta frastagliata quanto le coste della Norvegia!»

Altre distinzioni si potrebbero fare anche sul profilo relazionale: prendersi cura, infatti, di un minore, o di un adulto con disabilità intellettiva o psichica, nei confronti del quale si hanno anche responsabilità educative, è molto diverso che prestare assistenza a un adulto con disabilità motoria o sensoriale, capace di scegliere e comunicare come vuole vivere e di cosa ha bisogno. E certamente diversa è la situazione di quella mamma che si prende cura del figlio autistico, che peserà il doppio di lei, che sarà nel pieno delle sue forze, e che in occasione di una delle sue crisi le avrà magari rotto qualche costola.
Potremmo andare avanti ancora, ma immaginiamo che questi pochi accenni siano sufficienti a suggerire l’idea di una realtà che si presenta frastagliata quanto le coste della Norvegia!

E tuttavia, non sono poi molti i caregiver attivi nel rivendicare il riconoscimento giuridico e la tutela della propria figura. Come mai? La vecchiaia, la malattia e la disabilità portano l’attenzione sulla fragilità umana, e in questo frangente, preoccuparsi di sé, chiedere tutele, sono istanze vissute da molti caregiver come forme di egoismo, come un tentativo di trovare pretesti per sottrarsi ai propri doveri e alle proprie responsabilità, e anche come una sorta di disconoscimento della maggiore vulnerabilità altrui («chi ha maggiore bisogno è la persona di cui ti prendi cura, mica te…», sussurra all’orecchio la coscienza, mentre si appresta a far quadrare la contabilità morale).
Ma c’è dell’altro. Viviamo in una società che ha mitizzato la perfezione, l’autonomia e l’indipendenza, una società nella quale aver bisogno di cure evoca spesso connotazioni negative (difetto, passività, dipendenza, inferiorità). In un simile contesto, richiamare l’attenzione sugli oneri della cura potrebbe avere – come effetto collaterale – quello di rafforzare lo stigma negativo nei confronti dei destinatari delle cure.
Quella che non vede i caregiver è certamente una società distratta, ma è anche vero che gli stessi caregiver non fanno molto per attirare l’attenzione, perché sono oberati di lavoro, per pudore e discrezione, perché sono stanchi e rassegnati, perché, come abbiamo visto, non tutte le situazioni sono ugualmente onerose, ma anche, spesso, per le riserve a cui ho accennato.
Il timore di sentirsi ed essere considerati egoisti, e quello di nuocere in qualche modo ai propri cari, sono due “fantasmi” potentissimi che censurano sul nascere qualsiasi tipo di rivendicazione, e mantengono il lavoro di cura – e chi lo svolge – in una permanente situazione di invisibilità.
“Fantasmi”, appunto, perché se avere bisogno di cure fosse squalificante, allora saremmo tutti e tutte squalificati già ai “blocchi di partenza”. Non conosco infatti un solo essere umano che si sia tagliato il cordone ombelicale da solo, e se state leggendo queste righe significa che qualcuna(o) ha deciso che potevate nascere, vi ha lavato, vi ha nutrito, si è preoccupata della vostra incolumità e della vostra educazione. E, ad essere onesti fino in fondo, il “debito” non l’abbiamo solo con chi ci ha allevato, ma anche con tutte le persone che, nell’arco della vita, hanno contribuito alla nostra crescita. «Non esiste nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto padri e madri a ogni angolo di strada […]», chiosava, con impareggiabile lucidità, Bonaria Urrai, coprotagonista di Accabadora, romanzo di Michela Murgia (Accabadora, Torino, Einaudi, ©2009, p. 117).
Pertanto, richiamare l’attenzione sulla responsabilità della cura, se fatto in modo appropriato, non solo non è dannoso, ma può avere molti effetti benefìci: scalfire i miti della perfezione, dell’autonomia e dell’indipendenza, ricordando che la vulnerabilità, l’imperfezione – e il bisogno di cura in determinati momenti della vita – sono caratteristiche proprie di tutti gli individui e che, quindi, c’è ben poco da sentirsi superiori; sottolineare che non sono solo le famiglie ad avere responsabilità di cura, ma anche la società e lo Stato (e non è “da egoisti” richiamare ciascuno ai propri compiti, anzi, farlo serve a creare una maggiore tutela per le persone che amiamo, visto che così avranno a disposizione più risorse e diversi soggetti di riferimento); evidenziare che i diritti umani di bambini, anziani, malati e persone con disabilità vanno garantiti e non sono in alcun modo in discussione, ma che non si può pensare di continuare a garantirli comprimendo eccessivamente (o negando) quelli di chi gratuitamente se ne fa carico (e mi riferisco al diritto al riposo, a curarsi in caso di malattia, a mantenere il lavoro retribuito, ad avere un po’ di tempo per sé e per la vita di relazione: tutti diritti che spesso a molte e molti caregiver sono fortemente limitati o preclusi).

Mulo che trasporta dei computer, affiancato da due uomini
Spesso, anche su queste pagine, Giorgio Genta ha paragonato il lavoro del caregiver familiare a quello di un mulo da soma

Era il 1997 quando la sociologa inglese Jenny Morris, donna con disabilità, in un articolo pubblicato su «Social Policy & Administration», contrapponeva la cura all’empowerment (l’accrescimento dell’autoconsapevolezza e della capacità di autodeterminazione): « […] l’unico modo per dare potere alle persone disabili è abbattere l’ideologia della cura che è una forma di oppressione e un’espressione del pregiudizio. Sentire di avere potere (empowerment) significa scelta e controllo; significa che qualcuno ha il potere di esercitare la scelta e quindi di massimizzare il controllo sulla propria vita (sempre riconoscendo che ci sono limiti al controllo che ciascuno di noi ha su quanto accade nella propria vita). La cura – nella seconda metà del ventesimo secolo – è venuta a significare non l’interessarsi a qualcuno, ma il prendersi cura di qualcuno, nel senso di assumersene la responsabilità. Le persone che si dice abbiano bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro sono pensate come incapaci di esercitare scelta e controllo. Non si può, dunque, avere cura ed empowerment, perché è l’ideologia e la pratica della cura che ha portato a percepire la persona disabile come priva di potere» (Jenny Morris, Care or Empowerment? A Disability Rights Perspective, in «Social Policy & Administration», 31, 1, 1997, p. 57, citata in Brunella Casalini, Etica della cura, dipendenza, disabilità, nel sito di IAPh-Italia – Sezione Italiana dell’Associazione Internazionale delle Filosofe, 11 marzo 2015).
Sono passati diciotto anni da allora, ma l’idea della cura come forma di oppressione marginalizzante è ancora molto vivida tra alcune persone con disabilità. Pertanto non deve sorprendere che in certi ambienti si consideri come fumo negli occhi la proposta del riconoscimento della figura del caregiver familiare.
Credo che tutto il lavoro di cura – quello svolto in modo sano – debba mirare all’autostima, all’autoconsapevolezza, all’autonomia e all’indipendenza della persona con disabilità (possibilmente senza mitizzare questi concetti: non è che se una persona difetta nella capacità di autodeterminazione vale meno delle altre persone…), e credo anche che la generalità dei caregiver abbia piena consapevolezza di ciò, e lavori in questa direzione.
“Negare il potere”, nell’accezione utilizzata da Morris, è una forma di violenza: gli abusi e le violenze nei confronti delle persone con disabilità esistono, come esistono anche nei confronti di altri soggetti, ad esempio le donne (anche disabili) e i minori (anche disabili), ma sono, appunto, abusi, degenerazioni che vanno riconosciute e sanzionate come tali. Partire dall’abuso per disciplinare un fenomeno, è come voler levare i figli a tutti partendo dalla constatazione che alcuni genitori sono violenti. E onestamente non sembra una gran soluzione. A ciò si aggiungano tutti i diritti e le garanzie esplicitati nella Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (ratificata dall’Italia con la Legge 18/09): insomma, il complesso di tutti questi elementi esclude che il riconoscimento della figura del caregiver, e la sua tutela, possano comportare un arretramento nel percorso di emancipazione delle persone con disabilità.
Per essere ancora più chiari: il riconoscimento della figura del caregiver non obbliga nessuno a utilizzarlo. Chi ha in mente altri percorsi, può sceglierli con tranquillità. Però è opportuno tenere presente che anche la più brillante delle persone con disabilità, se si trova in una situazione di non autosufficienza, avrà bisogno di qualcuno che la supporti almeno sino alla maggiore età. Ulteriori riflessioni, inoltre, andrebbero fatte in relazione alle persone con disabilità intellettiva o psichica: è difficile, infatti, pensare che certe situazioni possano essere adeguatamente affrontate escludendo a priori la presenza di un caregiver. Quello che proprio non si può fare è affermare che il caregiver non sia utile per nessuno, in nessuna circostanza… non voglio incrinare le sicurezze di queste persone (o forse si), però invecchiamo tutti, anche le persone con disabilità.

La casalinga e il casalingo, una delle coppie di carte che rappresentano i diversi mestieri declinati sia al maschile che al femminile, utilizzate nel "Gioco del rispetto”, progetto pensato per le scuole dell’infanzia, al fine di insegnare ai bambini e alle bambine a superare gli stereotipi di genere
La casalinga e il casalingo, una delle coppie di carte che rappresentano i diversi mestieri declinati sia al maschile che al femminile, utilizzate nel “Gioco del rispetto”, progetto pensato per le scuole dell’infanzia, al fine di insegnare ai bambini e alle bambine a superare gli stereotipi di genere

Pisa, 15 maggio 2014, seminario di formazione Caregiving familiare: il peso del supporto e dell’accudimento quotidiano, sala gremita di donne, molte straniere, un solo uomo. Un caso? Direi di no. La stragrande maggioranza dei caregiver sono donne, sono loro, infatti, le più esposte al ricatto affettivo di vedersi sottrarre i figli se non dimostrano di essere sufficientemente presenti; sono loro ad essere sottoposte, sin dalla prima infanzia, a un’incessante pressione sociale ad assumere ruoli di cura. Ecco dunque palesarsi il timore di molte: riconoscere la figura del caregiver familiare significa sancire formalmente che il posto delle donne è la casa? Anni e anni di femminismo, per poi “tornare al via”?
Non è certo non riconoscendo la figura e i diritti di chi svolge lavori di cura che si levano le donne da casa: infatti, la carenza o l’assenza di servizi pubblici, e la generale indisponibilità degli uomini ad assumere ruoli di cura, fa sì che a casa ci stiano ugualmente, e per di più senza tutele. Semmai, per levare le donne da casa, sono necessari altri tipi di interventi: politiche di conciliazione dei tempi di vita con quelli del lavoro retribuito; la predisposizione di servizi di assistenza (nelle diverse forme: diretta, indiretta e autogestita); misure di contrasto alla rigida attribuzione dei ruoli in base al genere di appartenenza (la cosiddetta “genderizzazione dei ruoli”).
Su quest’ultimo aspetto vorrei soffermarmi ulteriormente. Uno dei modi per evitare, o ridurre, il rischio che il lavoro di cura si traduca in una compressione eccessiva delle libertà individuali del caregiver consiste nel distribuire, per quanto possibile, la responsabilità di cura tra diversi soggetti all’interno della famiglia. Su questo fronte, il fatto che spesso i padri siano poco o per niente collaborativi, e che le madri accondiscendano a tale condotta, induce anche i figli maschi a ritenere che i lavori di cura non siano di loro competenza. Alcune attività didattiche promosse in altrettante scuole dell’infanzia allo scopo di prevenire la violenza di genere attraverso il superamento degli stereotipi maschili e femminili (si veda, ad esempio, il progetto denominato Il gioco del rispetto), sono state duramente osteggiate da molti genitori, e da alcuni movimenti, per lo più (ma non solo) di ispirazione cattolica, con motivazioni sessiste e omofobe (si legga ad esempio Laura Tonero, “Gioco del rispetto”, la protesta si allarga, in «Il Piccolo», 28 aprile 2015). Metto in evidenza questi aspetti per far capire che il solo riconoscimento della figura del caregiver non è un intervento di per sé sufficiente a sanare tutte le ingiustizie generate dall’iniqua distribuzione dei lavori di cura. Ingiustizie che, manco a dirlo, penalizzano le donne.

In conclusione, possiamo pensare a un moderno sistema di welfare costruito proprio a partire dal riconoscimento del diritto di ogni individuo a ricevere e prestare cura. Un sistema articolato in modo da garantire a tutti la possibilità di conciliare i tempi di lavoro con i tempi di vita, e da assicurare ad ognuno la libertà di scegliere se prestare cura ad un proprio caro ed, eventualmente, in quale misura. In questa prospettiva il riconoscimento e la tutela della figura del caregiver è solo il tassello di un puzzle. Ma è un tassello importante. Ed è per questo motivo che le diverse resistenze cui ho accennato andrebbero superate.

Sociologa, caregiver, componente del Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), nel sito del quale è già apparso il presente testo, con il titolo “Le resistenze al riconoscimento del caregiver”. Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.

Per approfondire:
°
La Cura Invisibile, blog che promuove il riconoscimento giuridico e la tutela del caregiver familiare.
° 7° Rapporto sulla condizione assistenziale dei malati oncologici, in «Condicio.it», 18 maggio 2015 (ultimo aggiornamento: 20 maggio 2015).
° Le tutele per i caregiver familiari, in La Cura Invisibile, 11 maggio 2015.
° Mamme “separate per forza” dai loro figli: quando la disabilità divide, in «Redattore sociale», 8 maggio 2015.
° Laura Tonero, “Gioco del rispetto”, la protesta si allarga, in «Il Piccolo», 28 aprile 2015.
° Simona Lancioni, Il lavoro di cura in prospettiva etica, in sito del Gruppo Donne UILDM, 27 aprile 2015 (ripreso in «Superando.it», con il titolo Qualche riflessione sul lavoro di cura, 12 maggio 2015).
° Simona Lancioni, Lavoro di cura e sacrificio di sé, in sito del Gruppo Donne UILDM, 14 aprile 2015 (ripreso in «Superando.it», con il titolo L’immaginario collettivo non vede il lavoro di cura, 15 aprile 2015).
° Gabriella Meroni, Mamme con figli disabili, fatevi aiutare, in «Vita», 14 aprile 2015.
° Stefania Martani, Disabili, la venticinquesima ora di chi li assiste, in «la Repubblica.it», 13 aprile 2015.
° Il gioco del rispetto, sito dell’omonimo progetto rivolto alle scuole dell’infanzia e finalizzato alla prevenzione della violenza di genere (ultimo aggiornamento 11 aprile 2015).
° Simona Bellini, Noi caregiver, “invisibili tra gli invisibili”, chiediamo la Grazia!, in «Superando.it», 7 aprile 2015.
° Chiara Lalli, Tutti pazzi per il gender, in «Internazionale», 31 marzo 2015.
° Brunella Casalini, Etica della cura, dipendenza, disabilità, in sito di IAPh-Italia (Sezione Italiana dell’Associazione Internazionale delle Filosofe), 11 marzo 2015.
° L’eccellenza sostenibile nel nuovo welfare, in «Condicio.it», 16 febbraio 2015 (ultimo aggiornamento: 9 marzo 2015). Contiene i principali risultati della ricerca L’eccellenza sostenibile nel nuovo welfare. Modelli di risposta top standard ai bisogni delle persone non autosufficienti, realizzata dal CENSIS in collaborazione con la Fondazione Generali, presentata a Padova il 13 febbraio 2015.
° Rete dei CAAD dell’Emilia Romagna (Centri per l’Adattamento dell’Ambiente Domestico), Ricerche e dati nazionali sulla non autosufficienza, in «Retecaad.it», [2015].
° Lavoro di cura, in «Condicio.it», 1° luglio 2013 (ultimo aggiornamento: 29 ottobre 2014).
° Adriana Bazzi, Gli uomini dell’età della pietra si prendevano cura dei disabili, in «Corriere della sera», 12 febbraio 2013 (ultimo aggiornamento: 12 marzo 2013).
° Giorgio Genta, A chi giova aver cura dei caregiver familiari?, in «Superando.it», 11 dicembre 2012.
° Brunella Casalini, Etica della cura, disability studies e approccio delle capacità, in «Persona e danno», 12 maggio 2010.
° Michela Murgia, Accabadora, Torino, Einaudi, ©2009.

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