Perché è necessario il “possibile”, qui ed ora

di Luciano Paschetta*
«La pedagogia inclusiva va insegnata nelle aule universitarie, ma per trasmetterla sin da subito e per accelerarne il processo di consapevolizzazione, va anche disseminata e supportata nelle scuole»: lo scrive Luciano Paschetta, replicando anch’egli al più recente intervento del GRIDS (Gruppo Ricerca Inclusione e Diability Studies), pubblicato dal nostro giornale, e animando ulteriormente il dibattito sempre aperto su ciò che può contribuire a migliorare l’inclusione scolastica delle persone con disabilità

Classe di scuola affollataAnche questa volta ho letto con estremo interesse e piacere, in «Superando.it», l’ampio ed erudito articolo del Gruppo GRIDS Italy (Gruppo di Ricerca Inclusione e Disability Studies) [“La differenza fra il paradigma inclusivo e quello integrativo”, N.d.R.], e ancora una volta, così come per l’intervento precedente [“Nella scuola servirebbe un po’ di coraggio”, N.d.R.], ne ho condiviso i princìpi: quelli di una pegagogia inclusiva che faccia della scuola un reale luogo di inclusione.
A dimostrazione di questa mia condivisione, non “di facciata”, ma anche della proposta e della necessità di tempi lunghi per una sua implementazione al sistema scolastico, mi permetto di richiamare alcune mie considerazioni degli Anni Settanta e lo faccio non certo con il linguaggio forbito del ricercatore universitario, ma con quello del “pragmatico ruspante”, quale mi ritengo nei confronti delle scienze pedagogiche.

In quegli anni – anche sulla base dell’inserimento nelle scuole comuni dei primi bambini con disabilità da me seguiti – sostenevo che la pedagogia e la didattica che vanno bene per l’alunno disabile, vanno meglio per il compagno “normodotato” e che la presenza del disabile in una classe è paragonabile alla funzione della cartina di tornasole in chimica: rileva cioè la validità o meno dell’azione pedagogica del gruppo dei docenti.
Allo stesso modo, quale convinto sostenitore dell’eliminazione delle scuole speciali, in quanto fondavano le ragioni del loro esistere su un’idea pedagogica che muoveva, anziché dall’attenzione alla “persona” nel suo complesso, da quella verso la disabilità, ero convinto che la pedagogia – in quanto scienza dell’educazione – dovesse essere for all (“per tutti”).
E tuttavia, in seguito, nel pieno sviluppo del processo di integrazione scolastica, anziché affermarsi l’insegnamento della pedagogia inclusiva, nelle nostre università sorgevano le cattedre di “pedagogia speciale” che a chi scrive – sostenitore dell’“uguaglianza nella diversità” – sembrarono un ritorno al passato. Gli amici docenti universitari, però, me ne spiegarono le motivazioni ed io, esperto della scuola “in atto”, come docente prima e come dirigente scolastico poi, nel rispetto dei reciproci ruoli, pur non del tutto convinto, ho accettato le conclusioni della ricerca pedagogica.
Ecco perché condivido quanto scritto nell’articolo del GRIDS sulla necessità di una pedagogia inclusiva. Andrebbe però sottolineato che l’idea di separatezza nasce nelle aule universitarie: non è facile per l’“uomo comune” (e forse neanche per il “docente comune”) comprendere che per l’educazione dei bambini si studia la pedagogia, ma per educare i bambini con disabilità c’è la pedagogia speciale.

Ciò detto, sempre dal punto di vista di chi la scuola e il processo di inclusione lo ha vissuto e lo vive con ruoli diversi, ma sempre sul campo, e lo interpreta da “pragmatico ruspante”, credo altresì che perché le idee sostenute dal GRIDS possano diventare patrimonio comune a livello universitario prima, e concretizzarsi in “sistema” educativo poi, sia necessario un tempo che l’attuale situazione dell’inclusione scolastica non può più aspettare. Di qui la proposta del “possibile” qui ed ora, cui mira – pur avendo quale obiettivo la scuola inclusiva come quella descritta dal GRIDS – la Proposta di Legge 2444, riguardante le norme per migliorare la qualità dell’inclusione, sostenuta da FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali di Persone con Disabilità).
Vanno infatti in questa direzione: la richiesta di certificazione secondo il sistema ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.], la formazione continua obbligatoria in servizio dei docenti, il potenziamento della “rete” di supporto attraverso la valorizzazione dei CTS (Centri Territoriali di Supporto), ma anche, al di là dell’apparenza, una maggiore specializzazione dei docenti per il sostegno e l’istituzione per essi dello specifico ruolo.

In merito a quest’ultima vexata quaestio, ribadisco, ancora una volta, che creare il ruolo di sostegno chiarendo che il docente specializzato è a supporto del contesto (docente, consiglio di classe, di dipartimento, collegio docenti ecc.) e non dell’alunno con disabilità, lasciando, in tal modo, la totale responsabilità del suo apprendimento ai docenti titolari, mettendo questi ultimi al centro dell’azione educativa di tutta la classe, a nostro avviso vuol dire lavorare nell’ottica di una pedagogia inclusiva, una pedagogia inclusiva che va insegnata nelle aule universitarie, ma che al contempo, per trasmetterla sin da subito e per accelerarne il processo di consapevolizzazione, va anche disseminata e supportata nelle scuole.
Parlare di “uguaglianza nella diversità” significa altresì conoscere le “diversità” e farle conoscere è il ruolo del docente specializzato il quale affianca l’istituzione nel suo complesso, per attenzionarla al rispetto delle differenze, suggerendo metodologie, strumenti operativi e organizzazione del “tempo scuola” che rendano reali pari opportunità di apprendimento all’alunno con disabilità; è questo il compito di “funzione strumentale” (figura contrattualmente prevista) al quale il docente di ruolo specializzato potrà assolvere. E questo ruolo verrà a perdere di importanza, via via che la diffusione dei princìpi della pedagogia inclusiva, la maggiore specializzazione dei docenti e dei dirigenti scolastici faranno assumere al sistema formativo dei docenti stessi e alla scuola sempre maggior consapevolezza nella pedagogia for all, ponendo fine, allora sì, agli aspetti “duali” e di separatezza dell’attuale modello di inclusione.

Referente nazionale per l’Istruzione della FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali di Persone con Disabilità). Direttore centrale dell’IRIFOR (Istituto di Ricerca, Formazione e Riabilitazione, Ente dell’UICI-Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti).

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