Non è un titolo paradossale, quello scelto per questa nota. Le persone con disabilità grave, infatti, possono godere, e spesso godono, di buona salute. E questa “buona salute” non è un eufemismo, è una cosa reale, concreta, talvolta migliore di quella delle persone senza disabilità.
Naturalmente non è cosa facile, va ricercata, vigilata, protetta, mantenuta. Assai frequentemente, poi, è insidiata dalla stupidità degli uomini, dai tagli di bilancio, dalla crisi economica, dalle ideologie perverse. Come fare allora per ottenere e mantenere, nel possibile, questa buona salute?
Credo che per prima cosa sia utile essere “resilienti”, dotati cioè – e meglio se in abbondanza – di quella preziosa virtù che fa reagire con rinnovato vigore ad ogni incremento di avversità.
Un po’ di fortuna poi non guasta e qui sta l’unico paradosso perché il concetto di resilienza è antitetico a quello di buona sorte.
Su questo dualismo il giornalista Mario Calabresi scrisse anni fa un bel libro, intitolato La fortuna non esiste. Storie di uomini e donne che hanno avuto il coraggio di rialzarsi, ove nelle prime pagine riportava una divertentissima delucidazione di Paul Claudel* su cosa gli americani intendano per resiliency.
A una persona con disabilità assai grave a me ben nota, alcuni giorni addietro hanno eseguito una broncoscopia in sedazione per controllare un granuloma nella trachea. Andava tutto bene, nel possibile. Riporto qui di seguito il dialogo tra il bravissimo primario di pneumologia e l’altrettanto brava rianimatrice che ha eseguito l’accertamento: primario: «Li salvate?»; rianimatrice: «Tutti no. Quelli che possiamo». Ebbene, il primario intendeva i dati sul computer, la rianimatrice i pazienti del proprio reparto. Nessuno dei due scherzava, ma l’effetto avrebbe potuto essere comico in modo devastante.
Io ho sorriso cautamente. Potrebbe essere un buon esempio di resilienza?
*Paul Claudel, citato da Mario Calabresi, in La fortuna non esiste. Storie di uomini e donne che hanno avuto il coraggio di rialzarsi: «Nel temperamento americano c’è una qualità, chiamata resiliency, che abbraccia i concetti di elasticità, di rimbalzo, di risorsa e di buon umore. Una ragazza perde il patrimonio, senza stare a commiserarsi si metterà a lavare i piatti e a fabbricare cappelli. Uno studente non si sentirà svilito lavorando qualche ora al giorno in un garage o in un caffè. Ho visitato l’America alla fine della presidenza Hoover [dopo la crisi del 1929], in una delle ore più tragiche della sua storia, quando tutte le banche avevano chiuso i battenti e la vita economica era ferma. L’angoscia stringeva i cuori, ma l’allegria e la fiducia splendevano nei volti di tutti. Ad ascoltare le frasi che si scambiavano si sarebbe detto che era tutto un enorme scherzo. E se qualche finanziere si gettava dalla finestra, non posso impedirmi di pensare che lo facesse nella ingannevole speranza di rimbalzare».