La notizia è stata rilanciata da diverse testate on line, ma la versione più accurata sembra essere quella pubblicata nel sito del «Corriere della Sera», che ha titolato: «Mio marito mi vuole uccidere». Malata di Sla lancia l’allarme grazie a un battito di ciglia» (di Andrea Pasqualetto, 1° settembre 2015).
Il fatto è avvenuto a Villaretto di Roure (Torino). Tatiana è una donna interessata dalla sclerosi laterale amiotrofica (SLA), malattia neurodegenerativa che comporta una debolezza muscolare progressiva. Non essendo più in grado di esprimersi verbalmente, comunica utilizzando un computer gestito attraverso un puntatore oculare. È tramite questo strumento che, qualche settimana fa la donna è riuscita a inviare al fratello Antonio il messaggio che l’ha indotto ad avvisare i carabinieri: «Fabrizio minaccia il suicidio, vuole uccidere anche me».
Fabrizio è il nome del marito della donna, l’uomo di 34 anni (35 secondo altre fonti) che lei ha sposato tre anni addietro, «quando la malattia di Tatiana non era ancora esplosa in tutta la sua drammaticità», riferisce il giornalista. L’intervento dei Carabinieri evita il peggio. Il marito viene arrestato, processato per direttissima, e rilasciato col divieto di avvicinarsi alla moglie (che nel frattempo è andata a stare dal fratello Antonio). Ai giudici che lo hanno processato Fabrizio ha dichiarato «Sono andato fuori di testa per lo stress» e «A Tatiana non ho mai fatto del male e mai ne avrei fatto. Sono stato lasciato solo con lei e mi sembrava di non farcela più».
Questi i fatti. Quelle che seguono invece sono alcune osservazioni. La prima è che Fabrizio, sentendosi sovraccaricato dal lavoro di cura, ha pensato di uccidere sua moglie e se stesso senza nemmeno preoccuparsi di chiedere alla donna se condividesse o meno il diabolico piano. Come se prendersi cura di una persona costituisse un “titolo di acquisto” della proprietà della medesima. Come se avere necessità di assistenza trasformasse le persone in “cose di cui si può disporre”.
Questo significa che anche se non si è giunti all’omicidio, ci troviamo comunque davanti ad un grave episodio di violenza che ha assunto la disabilità come alibi. È vero che Tatiana ha bisogno di assistenza continua, ma verosimilmente non corrisponde a verità che Fabrizio fosse l’unica persona che potesse prestargliela, se consideriamo che, da subito dopo il fatto, Tatiana è assistita da qualcun altro/a a casa del fratello. Né è pensabile che Tatiana condividesse i progetti del marito: se li avesse condivisi, infatti, non avrebbe chiesto aiuto.
Allora com’è potuto succedere che Fabrizio si convincesse di essere solo, e che anche Tatiana volesse morire con lui? È impossibile rispondere a tali interrogativi basandoci esclusivamente sulle notizie riportate dai giornali, tuttavia alcune dinamiche sembrano proprio calzare a pennello.
La disabilità causata dalla SLA richiede un tipo di assistenza intensiva e continuativa, alla quale un’unica persona può far fronte senza minare il proprio equilibrio psicofisico solo per un periodo limitato di tempo. Quando l’impegno di cura intensiva si protrae per anni – e talvolta decenni – è abbastanza improbabile che il o la caregiver familiare – ovvero la persona che presta assistenza in modo significativo, continuativo e gratuito a un/a congiunto/a con grave disabilità – non ne consegua un danno.
Spesso i caregiver non si sentono all’altezza del compito che devono svolgere, sono coinvolti a livello fisico, organizzativo, emotivo ed economico, si ritrovano reclusi in casa, sperimentano sentimenti di solitudine e stanchezza estreme. Potrebbero chiedere aiuto, ma non è detto che lo facciano: essendo spesso il caregiver un familiare, egli finisce col convincersi che l’assistenza gli competa in modo esclusivo, e che chiedere aiuto significhi “non voler bene abbastanza”. I bisogni di svago e riposo, che fisiologicamente e prepotentemente si ripropongono, sono spesso vissuti da costoro con sensi di colpa, rinforzati anche da aspettative sociali ben precise riguardo al ruolo stesso del caregiver.
«La ama più di se stesso», ha riferito al giornalista del “Corriere della Sera” Marika, una donna che lavora al Sigmund Bar, il locale di Villaretto di Roure frequentato anche da Fabrizio. «Quante volte mi ha detto “io mi rovinerei la vita per lei”», e ancora: «Troppo tempo e troppo solo, l’hanno abbandonato e questa non è una cosa giusta. Lui era preoccupato perché sentiva di non farcela, di non riuscire a dare a Tatiana abbastanza sostegno […]. E poi c’erano le chiacchiere di paese, “maledette chiacchiere”. Chi lo vedeva fuori di casa diceva subito che doveva stare con sua moglie». Quindi osserva: «Ma come fa un ragazzo a rimanere 24 ore al giorno in casa? C’è da impazzire. Io lo conosco bene, lui è molto buono e non è la solita frase fatta. Non ha mai chiesto aiuto per Tatiana ma si capiva che era in difficoltà».
C’è poi un altro elemento che potrebbe aver giocato un ruolo in questa vicenda: il pregiudizio che tutte le persone con disabilità tanto importanti non abbiano voglia di vivere in questa condizione e preferiscano morire. Questo, va ben sottolineato, non è vero. In alcuni casi è così, in altri no.
Era così per Piergiorgio Welby, l’attivista con disabilità impegnato per il riconoscimento legale del diritto al rifiuto dell’accanimento terapeutico in Italia, che ha chiesto e ottenuto che venisse staccato il respiratore che lo teneva in vita (Welby è deceduto il 20 dicembre del 2006). Una scelta indubbiamente dolorosa, ma che, in quanto espressione della volontà lucida del diretto interessato, non poteva essere disattesa. Non è così per Tatiana. Se Tatiana ha chiesto aiuto, è perché vuole vivere. E se proprio volessimo trovare uno spiraglio di luce in questa oscura vicenda, certamente esso scaturisce dalla voglia di vita che Tatiana è riuscita ad esprimere col suo battito di ciglia.
Ci sono persone con disabilità gravissime che la vita la amano profondamente. Marina Garaventa, ad esempio, è una donna che non si muove, respira tramite una macchina, non parla, ma, grazie al suo computer, riesce a comunicare. Garaventa scrive libri e articoli, gestisce un blog, si occupa di sociale, di politica, di musica, e non ha particolari dubbi circa il fatto che lei, alla morte, vuole «arrivarci viva».
Possiamo osservare che i pensieri criminali di Fabrizio non sono stati ispirati da un potente “spirito malvagio”, quale potrebbe essere Sauron, l’Oscuro Signore di Mordor raccontato nei libri di Tolkien. Quei pensieri criminali sono maturati nella solitudine, nel chiuso delle pareti domestiche, nella mancanza, o nell’insufficienza, dei servizi pubblici di assistenza, nell’assenza di altre figure di supporto (ad esempio, altri familiari), perché non chiamate a contribuire all’assistenza, oppure perché resesi indisponibili, nella pressione sociale (le “maledette chiacchiere”) che al caregiver riconosce solo doveri, e non contempla distrazioni. Capire questo non serve a trovare giustificazioni o attenuanti alla violenza, quanto, invece, a provare a prevenirla.
Il primo elemento da smontare è questa idea che le persone si possano “possedere”. La media italiana di una donna ammazzata ogni tre giorni (dati del 2014) trova il suo presupposto nella convinzione (prevalentemente maschile) che a qualcuno sia consentito di disporre della vita altrui.
Ecco, chiariamo bene che nessuno ci appartiene. Non ci appartengono i nostri figli, anche se li abbiamo generati. Non ci appartengono i nostri genitori, le nostre mogli, i mariti, le fidanzate, i fidanzati, le sorelle, i fratelli, gli amici… Non ci appartengono le persone di cui ci curiamo, neanche quando a loro dedichiamo una parte significativa della nostra vita. Non ci appartengono le persone che si curano di noi, neanche quando il nostro bisogno di cura è intensivo e ci sembra quasi inconcepibile che quelle cure non ci vengano fornite dalla persona a cui ci sentiamo più legati.
Chi fa propria questa convinzione potrebbe sempre, in un momento di disperazione, far del male a se stesso, ma certamente non costituisce un pericolo per gli altri. E ciò sembra già un buon punto di partenza.
Un altro elemento che va considerato è il fatto che in Italia, a differenza che negli altri Paesi Europei, la figura del caregiver non è né riconosciuta, né tutelata, e che la qual cosa, in taluni casi, la espone a una sistematica e reiterata violazione dei suoi diritti umani (non potersi riposare, non potersi curare, non avere più tempo per una vita sociale, dover rinunciare al lavoro retribuito, non poter maturare una pensione, ritrovarsi in situazione di indigenza economica…).
Sembra proprio questa la situazione in cui si è trovato Fabrizio e ciò vuol dire che se finalmente iniziassimo a preoccuparci e a occuparci della salute dei caregiver, molto probabilmente avremmo molti meno motivi di temere che si verificassero episodi come quello che ha visto Fabrizio protagonista della cronaca locale.
In conclusione, a guardar bene, il programma di prevenzione della violenza si riduce a soli due punti: imparare che gli aggettivi possessivi sono legittimi solo se riferiti a cose o idee, e che la tutela della salute dei caregiver non è solo una pratica di civiltà, ma anche un interesse della società. Se ci applichiamo, ce la possiamo fare.
Sociologa, caregiver, componente del Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). Il presente testo è già apparso nel sito del Gruppo stesso, con il titolo “Nessuno ci appartiene”, e viene qui ripreso, con alcuni minimi riadattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.
Per approfondire:
° La cura invisibile, blog che promuove il riconoscimento giuridico e la tutela del caregiver familiare in Italia.
° Pagina del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) in tema di “lavoro di cura”.
° Pagina del Gruppo Donne UILDM in tema di “violenza contro le donne”.
° Stefano Borgato, Caregiver: lo sguardo all’Europa e alle Nazioni Unite, in «Superando.it», 9 settembre 2015.
° Sara De Carli, I caregiver familiari denunciano l’Italia a Bruxelles, in «Vita», 7 settembre 2015.
° Lei è malata di Sla e il marito vuole ucciderla, lei si salva così, in «Il Mattino.it», 2 settembre 2015.
° Andrea Pasqualetto, «Mio marito mi vuole uccidere». Malata di Sla lancia l’allarme grazie a un battito di ciglia, in «Corriere della Sera.it», 1° settembre 2015.
° Malata di SLA. Il marito vuole ucciderla, avverte il fratello scrivendo con gli occhi, in «Ilsussidiario.net», 1° settembre 2015.
° Tatiana, malata di Sla: marito vuole ucciderla per colpa della crisi, lei si salva così, in «Leggo», 1° settembre 2015.
° Il marito vuole ucciderla: malata di Sla si salva battendo le ciglia, in «Today», 1° settembre 2015.
° La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia, anno 2014, Istat, 5 giugno 2015.
° Femminicidio: dati in continuo aumento, in «Altrimondi News», 27 gennaio 2015.
° Marina Garaventa (intervista a), «Voi camminate, io volo», a cura di Simona Lancioni, in Gruppo Donne UILDM, 27 aprile 2012, ripresa in «Superando.it», con il titolo Ad essere «Santa subito» non ci tengo affatto!, 4 maggio 2012.
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