In un suo recente articolo pubblicato dall’agenzia «Redattore Sociale» [“Ianes: la “carriera” dell’insegnante di sostegno piace ai genitori, non ai docenti”, N.d.R.], il professor Dario Ianes scrive tra l’altro: «…si sta cercando di utilizzare il disegno di legge di FISH e FAND [rispettivamente Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap e Federazione tra le Associazioni Nazionali di Persone con Disabilità. Il riferimento è alla Proposta di Legge AC 2444, N.d.R.], di cui riconosco molti aspetti positivi, ma contesto, insieme a quasi tutti i docenti di Pedagogia speciale, l’idea di creare un percorso universitario e un ruolo separato».
Detto questo, nello stesso articolo Ianes presenta anche i risultati di un suo sondaggio rivolto a docenti e genitori, composto da due domande, una sul percorso universitario distinto per l’insegnante di sostegno e la seconda sul ruolo separato.
Si scopre così quello che noi sosteniamo da tempo [il riferimento è a quanto sostenuto dalle Federazioni FISH e FAND, N.d.R.]: dal sondaggio emerge che il 70% degli insegnanti è contrario a carriere separate, mentre le percentuali si invertono nelle risposte delle famiglie. Questo a dimostrazione che le proposte da noi sostenute non nascono da “elucubrazioni”, ma sono il frutto di una conoscenza dello “stato dell’inclusione” che ci deriva dall’essere quotidianamente a contatto con chi la disabilità la “vive”.
Da quarant’anni siamo a fianco delle famiglie nel seguire l’evoluzione dell’inclusione scolastica e da loro ci arrivano queste forti richieste: maggiore specializzazione, no alla delega al docente di sostegno e maggiore continuità del sostegno stesso. È dal cercare di comprendere le cause di questi punti di debolezza del processo e di dar loro una risposta che arrivano le nostre proposte.
Maggiore specializzazione: in questi anni la specializzazione è diventata da “polivalente”, intesa cioè come preparazione alle metodologie necessarie a rispondere ai bisogni educativi di tutti e per ciascuno degli alunni con disabilità diverse, a una preparazione generalista, che ha perso di vista il “ciascuno”, risultando del tutto incapace di rispondere ai bisogni educativi particolari.
Oltre a ciò, visto che i docenti hanno l’obbligo di restare sul sostegno solo per cinque anni, ogni anno assistiamo a una vera e propria “emigrazione” di migliaia di insegnanti verso i ruoli ordinari delle discipline, con il risultato che, sovente, le graduatorie degli specializzati risultano esaurite ed entrano a fare sostegno docenti senza alcuna preparazione specifica; d’altra parte, cercare di specializzare tutti i docenti – vigente questo sistema – è, come ho già avuto modo di scrivere, pretendere di riempire un secchio bucato.
L’attuale status dell’insegnante di sostegno – che anche quando è di ruolo, non ha sede definitiva nella scuola in cui opera, non entra a far parte dell’organico di diritto di essa, ma resta nell’organico provinciale – lo rende “precario” e “diverso” all’interno del corpo docente. A questa ambiguità dello status giuridico, si affianca poi quella della sua funzione: docente esperto della didattica disciplinare o docente di supporto al docente della disciplina per l’attuazione di una didattica inclusiva?
È da queste precarietà e ambiguità che nascono, a mio parere, la delega dell’insegnamento all’alunno con disabilità, la scarsa considerazione e l’isolamento del docente di sostegno. Egli possiede infatti un’abilitazione per una determinata classe di concorso, mentre dev’essere “contitolare” per il sostegno con docenti di tutte le discipline (ad esempio un insegnante abilitato in educazione fisica dovrà fornire il necessario sostegno per l’inclusione dell’alunno con disabilità al docente di matematica o di lettere, piuttosto che a quello di lingue straniere ecc.). Come potrà dunque dimostrare la sua capacità professionale di docente contitolare per il sostegno nei confronti del collega? Non certo in rapporto alle conoscenze disciplinari, ma unicamente in riferimento alle sue competenze pedagogico-didattiche, metodologiche e relazionali, rispetto alla disabilità dell’alunno, competenze che siano capaci di rendere efficaci anche per lui gli insegnamenti del collega, competenze che quasi mai egli possiede in modo esaustivo.
Questa “inadeguatezza professionale” è sempre più evidente, via via che si passa dalla scuola primaria alla secondaria di primo e a quella di secondo grado, quando cioè gli apprendimenti disciplinari diventano sempre più specifici. E questo stato di cose, evidenziando la sua difficoltà a supportare il docente della disciplina nello sviluppare un percorso inclusivo, favorisce la delega dei titolari dell’alunno con disabilità allo stesso docente di sostegno e il suo progressivo isolamento dal contesto della classe, fino ad arrivare, sempre più spesso, allo svolgimento delle attività didattiche nella cosiddetta “aula di sostegno”, in corrispondenza con la totale rinuncia, da parte dei docenti titolari, all’insegnamento e alla valutazione di quegli alunni.
Per poter dunque esercitare una reale contitolarità – unico modo per garantire un’effettiva inclusione – è necessario che vi siano funzioni ben definite: al docente titolare spetti il diritto-dovere di insegnare la disciplina e di verificare gli apprendimenti di tutti gli alunni della classe, compresi quelli con disabilità, funzione questa che non potrà più delegare a nessuno; al docente di sostegno non competano né l’insegnamento disciplinare, né la verifica degli apprendimenti dell’alunno con disabilità, ma il dovere di supportare il collega titolare, il Consiglio di Classe e l’intero contesto, suggerendo metodologie e indicazioni didattiche appropriate, oltreché fornendo gli strumenti volti a rendere efficaci gli insegnamenti, sia pur nei limiti consentiti dalla disabilità dell’alunno.
Per arrivare a questo obiettivo occorrono, a parere di chi scrive, una preparazione di base sulle tematiche della disabilità di tutti i docenti titolari e una maggiore specializzazione per quelli di sostegno, che dia accesso a uno specifico ruolo. Specializzazione, questa, che non può essere solo, come avviene ora, “general-generica”, ma deve comprendere anche conoscenze didattiche, competenze tecnico-metodologiche, modalità di comunicazione e di relazione efficaci in riferimento alle specifiche disabilità.
Il “nuovo” insegnante per il sostegno, dunque, dovrà essere un docente esperto di didattica e docimologia [ramo della pedagogia che si può collocare specificamente tra le tecniche sperimentali che si occupano dello studio dei sistemi di valutazione delle prove di verifica, N.d.R.], con specifiche competenze di pedagogia speciale, progettista e attuatore di percorsi formativi, sviluppati e realizzati in team con i colleghi titolari delle discipline, ma potrà anche essere la “figura obiettivo” e il mediatore didattico per l’inclusione, capace di contribuire all’elaborazione di un Piano dell’Offerta Formativa (POF) inclusivo e di rendere “accogliente” l’intero contesto. Solo così, una volta definite le funzioni e i reciproci ruoli, la “contitolarità” tra docente di classe e docente di sostegno potrà essere reale e sviluppare una progettazione didattica efficace ed inclusiva.
Proporre un percorso formativo specifico per accedere al ruolo di sostegno pone fine all’ultima ambiguità, quella della provvisorietà della scelta. È infatti una scelta, quella del sostegno, quasi mai definitiva. Per molti, infatti, è stata spesso una scelta “occasionale”, “di ripiego”, quando non “opportunistica”, tutte “motivazioni” che ben poco hanno a che fare con l’“interesse” con il quale, di norma, ci si prepara e si sceglie un lavoro.
Nell’articolo citato inizialmente, il professor Ianes scrive ancora: «C’è insomma una vera e propria frattura tra chi opera professionalmente nel mondo della scuola e chi invece ne usufruisce come utente. Una frattura che va ricomposta».
Ebbene, a questo tema è stata dedicata la tavola rotonda del 14 novembre al 10° Convegno Internazionale sulla Qualità dell’inclusione scolastica e sociale, organizzato dal Centro Studi Erickson [se ne legga anche nel nostro giornale l’ampia presentazione, N.d.R.], organizzazione di cui Ianes è uno dei referenti scientifici. Mi dispiace quindi, dopo averne letto le parole («verificata la contrapposizione tra docenti e famiglie, questa è una frattura che va ricomposta»), aver dovuto constatatare come a quella tavola rotonda, la rappresentanza delle persone con disabilità fosse dimezzata: la FAND, infatti, una delle due Federazioni di Associazioni di persone con disabilità (della quale fa parte, tra le altre, l’UICI-Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti), che con la FISH ha elaborato le diverse proposte, non era stata invitata a parteciparvi!