Fatti molto gravi, che coinvolgono persone autistiche appartenenti a varie fasce di età, si susseguono ormai quotidianamente, con il rischio di produrre una pesante assuefazione, la stessa – non sembri esagerato – che si coglie talvolta davanti agli algidi annunci degli speaker televisivi che informano di decine o centinaia di migranti morti dopo l’ennesimo affondamento di misere carrette del mare, o quello dei tanti morti ammazzati a causa di fanatici terroristi che uccidono in nome di un Dio che mai ha predicato l’odio e il disprezzo della vita umana.
Intendo dire che ci si sta forse abituando, con colpevole rassegnazione, a “subire” gli eventi e ciò è tanto più odioso se essi coinvolgono soggetti fragili e deboli, non di rado privi persino della capacità di indirizzare all’esterno i più labili lamenti.
Emblematica, a questo proposito, è la notizia riportata pochi giorni fa dal «Messaggero Veneto», che ha aperto la propria edizione online con il titolo Autistici gravi dimenticati da tutti: «Nessuno li vuole accogliere». A seguire: «Udine, la denuncia dei genitori: sul territorio manca una struttura specializzata per gli ultraquindicenni. Famiglie disposte a finanziare la creazione di un centro, ma dagli amministratori nessuna risposta».
Sulla pagina Facebook di chi scrive, dopo la pubblicazione dell’articolo, si è aperto un interessante e vivace dibattito, in cui abbiamo colto accesi sentimenti di rabbia e indignazione, rivolti non solo alla politica, ma anche alle associazioni, cui si imputa – a torto o a ragione – di non riuscire a rappresentare e contrastare efficacemente la complessa realtà in cui vivono le persone autistiche. Si tratta di critiche in alcuni casi radicali, altre volte più sfumate e articolate: tutte però hanno in comune il bisogno di ribellarsi a quello che non può, con tutta evidenza, rimanere lo status quo dei nostri figli.
La mia idea è che – ferme restando le pesanti responsabilità delle Istituzioni, da sempre più dispensatrici di promesse che di fatti – non sia parimenti possibile tacere gli errori e i limiti delle associazioni, anche se non sarò certo io ad avventurarmi nell’inutile e mediocre gioco delle percentuali di colpa, che non interesserebbe nessuno e men che meno ai nostri cari.
Di fronte ai rilievi mossi alle associazioni mi aspetto, di rimando, almeno tre contestazioni: «Siamo volontari» (ed è vero); «Facciamo quello che possiamo» (ed è parzialmente vero); «Abbiamo solo un potere consultivo» (e questo, a mio giudizio, non è vero).
A scanso di equivoci, comincio subito col ribadire a chi guida le associazioni tutta la mia gratitudine, riconoscenza e stima, per l’impegno profuso in condizioni sicuramente difficili.
Diverso e da analizzare in modo più approfondito, magari in un’altra sede o in un altro articolo, è il discorso che riguarda, in questa fase, ciò che un’associazione può e deve fare in favore dei suoi iscritti… Mi chiedo: «È possibile definire nell’immediato due o tre priorità (cito a mo’ di esempio: condizioni di vita delle persone autistiche adulte, stato delle strutture esistenti, garanzia di elevati standard e servizi), e perseguirle con coerenza, monitorandone, nel breve e medio periodo, gli sviluppi?».
Alla terza (eventuale) obiezione replico in questo modo: «Come si fa a sostenere che un’associazione non possegga mezzi di pressione adeguati, tali da conferire ad essa un potere, anche mediatico, “importante”, che inchiodi la politica e i politici alle loro responsabilità?». Non è che invece, rimanendo passive, le associazioni rinunciano a svolgere un ruolo propulsivo, accontentandosi di gestire “il possibile” indicato strumentalmente dalla politica?
Veniamo al dunque: come fa un’associazione numericamente rilevante a non dare una risposta immediata e ferma di condanna, di fronte al ripetersi di fatti molto gravi? Come rinunciare, per esempio, a una conferenza stampa, a una nota consegnata alle agenzie, alle televisioni, a una pagina da affittare su un quotidiano nazionale di larga diffusione?
Si dirà che questo non basta… È vero, ma da qualche parte bisogna pur cominciare e quello indicato è, in effetti, solo un inizio, un carpe diem, qualcosa in grado di rompere il silenzio che in certe occasioni avvertiamo.
E poi? E poi si potrebbe/dovrebbe pensare ad altro, di molto più incisivo… Ad esempio perché non individuare un giorno in cui le famiglie con bambini e adolescenti autistici non mandano i loro figli a scuola, in segno di protesta contro il modo inadeguato con cui vengono affrontati i bisogni specifici degli allievi con autismo? Perché, in questa sorta di “sciopero bianco”, non pensare a una manifestazione regionale di supporto all’iniziativa? Perché, infine, non lavorare – da subito – a una manifestazione nazionale capace di dar voce al malessere e alla rabbia di centinaia di migliaia di persone autistiche e delle loro famiglie?
Davvero qualcuno crede che queste iniziative (naturalmente collegate a precisi obiettivi programmatici e strategici), con il clamore mediatico che ne conseguirebbe, lascerebbero indifferente la classe politica? Ancora: non sarebbe una potente arma di pressione la minaccia di fare un falò dei certificati elettorali quando, a giugno 2016, molte città saranno chiamate al voto? La realtà, insomma, potrebbe essere ben diversa dal racconto che viene fatto, ma perché ciò avvenga è necessario scuotersi e alzare la testa!
Non credo che questi suggerimenti siano sovversivi o tali da incrinare irrimediabilmente il rapporto di fiducia con le associazioni, che rimangono un insostituibile pilastro di rappresentanza per le famiglie. Penso, piuttosto, che sia urgente tornare a dare la parola a quei familiari che ogni giorno combattono, nel silenzio generale, drammatiche battaglie di sopravvivenza per garantire un presente e un futuro dignitoso ai loro figli. Restituire la parola ai genitori, farli contare quando si tratta di fare scelte e attuare iniziative importanti, significa (ri)stabilire un circuito di confronto plurale che fin qui ha mostrato crepe preoccupanti… Perché rinunciare ad avviare questo processo virtuoso?
So che sarà un percorso lungo e difficile, ma immagino anche che, per non essere travolte da una disaffezione sempre più diffusa, sia necessario e forse ineludibile che le associazioni tengano conto dell’esigenza di aprirsi a un serio cambiamento, che non può non essere avviato dal basso, dunque dalle famiglie.
Queste ultime non possono limitarsi alla pura denuncia, per quanto umanamente comprensibile, ma devono essere parte attiva del rinnovamento, devono riscoprire le ragioni di un protagonismo sempre più offuscato, che rischia di tradursi in rassegnazione perdente, in delega senza senso, in assenza di prospettiva.
Detto questo, non è neanche giusto denunciare banalmente le cosiddette“colpe” dei familiari, dimenticando che c’è una grande differenza tra un “semplice” genitore e chi è investito di altre responsabilità, così come – in altri àmbiti – non si può dire ai cittadini «stiamo tutti sulla stessa barca», dimenticando che qualcuno è ai remi e qualcun altro al timone.
I fatti di Udine, e più in generale la colpevole sottovalutazione delle drammatiche condizioni di vita delle persone autistiche e delle loro famiglie, rappresentano un interessante spaccato di questa contraddizione.
Da qui, e solo da qui, il mio accorato appello ad esserci, a contare, a esistere, a lottare. Per vincere la nostra battaglia!