Un paio di anni mi fu chiesto di intervenire sul tema della violenza alle donne con disabilità. Mi sono sentita subito in grande imbarazzo perché il tema mi sembrava totalmente sconosciuto e invisibile. Eppure sono una donna, sono disabile, ho tante amiche con disabilità, che a loro volta conoscono altre donne disabili; ho lavorato per un decennio, tra le varie attività, a uno Sportello Informahandicap, dove incontravo persone disabili e le loro famiglie, ma anche gli educatori, gli assistenti domiciliari, gli operatori dei servizi socio assistenziali, gli insegnanti, i vicini di casa, insomma… qualunque persona si venisse per un qualche motivo a trovare a contatto con la disabilità. Mai una volta qualcuno mi avesse segnalato un caso di violenza a una donna disabile, né per contatto diretto, né per sentito dire («Sai che ho saputo che…»).
Inoltre sono giornalista, mi sono occupata soprattutto di maternità delle donne con disabilità, sia di quelle che hanno figli sia di quelle che desiderano averne; mi occupo quotidianamente di temi sociali, ci scrivo sopra, cerco di veicolare una buona cultura della disabilità, ma niente: la violenza continuava per me a essere silenziosa e invisibile. Tranne ovviamente qualche caso clamoroso sbattuto in prima pagina dai mass-media tradizionali, ad esempio donne con deficit intellettivi segregate in casa e abusate, oppure abusate nelle strutture residenziali…
Poi mi sono guardata intorno, e ho scoperto che alcune forme di violenza sono sempre state sotto i miei occhi, anche se si tratta di forme più subdole, meno evidenti, meno eclatanti perché non portano alle percosse, alle ferite, agli occhi neri, ai lividi, allo stupro.
La violenza che intendo io è quella che nega alla donna con disabilità il diritto all’adultità, a essere riconosciuta come una donna adulta che possa prendere anche qualche decisione sulla propria vita, banalmente partendo dalla maglietta che si vuole indossare per uscire di casa.
Ci sono genitori od operatori che vestono appositamente male la figlia o donna con disabilità, in modo che non possa risultare attraente per gli altri, «perché non si sa mai, un qualche male intenzionato che si voglia approfittare di lei ci può essere e dopo sono guai, soprattutto se resta incinta».
Ci sono genitori od operatori che non portano mai la figlia o donna con disabilità dalla parrucchiera, «perché tanto anche se le sistemo i capelli cosa cambia? Non la vorrà comunque nessuno disabile com’è!».
Ci sono genitori od operatori che non depilano le gambe della figlia o donna con disabilità, anche se è estate e si indossano vestiti più corti, «perché tanto sono “gambe disabili”, sono comunque fatte diversamente, un pelo in più o in meno non fa la differenza».
Ci sono genitori od operatori che mandano al lavoro la figlia o donna disabile coi pantaloni macchiati, «tanto non se ne accorge nessuno, si nota solo che è disabile, mica come è vestita».
Ci sono genitori od operatori che fanno indossare il pannolone alla figlia o donna con disabilità, «perché è più comodo, non devo portarla sempre in bagno, ché si fa fatica».
Ci sono genitori od operatori che non permettono alla figlia o donna con disabilità di avere la possibilità di decidere come utilizzare anche solo un euro della propria pensione di invalidità.
Ci sono genitori od operatori che si rifiutano di comprare alla figlia o donna con disabilità degli ausili per migliorarne l’autonomia, «tanto autonoma non lo sarà mai fino in fondo».
Ci sono donne con disabilità che vestiranno con la tuta da ginnastica per tutta la vita perché la tuta facilita le operazioni di chi si deve prendere cura di lei».
Quanti casi conosciamo di questo tipo? Quanti ne abbiamo visti? Dove risiede la violenza? Proprio nel concetto di invisibilità: perché alla base di tutte le forme di violenza c’è essenzialmente la violazione di un diritto umano fondamentale, quello di essere vista come persona e come donna.
Come abbiamo già ampiamente segnalato qualche settimana fa, di tutto quanto scritto da Valeria Alpi nella presente riflessione e di molto altro, si parla anche in La vie en rose, nuovo numero di «HP-Accaparlante», la “storica” rivista del CDH (Centro Documentazione Handicap) di Bologna. La monografia è curata dalla stessa Alpi, insieme a Martina Gerosa e Giovanna Di Pasquale e grazie a una rete di associazioni e istituzioni nata a Milano nel dicembre dello scorso anno, per costruire percorsi di uscita dalla violenza per donne con disabilità.