Presidente, Presidenti, tre milioni di persone sono rimaste fuori da quest’aula. Questa splendida sala, infatti, non è così capiente da accogliere tutte le persone con grave disabilità che vivono in questo Paese, ma è forse capace di sentire le loro voci, di visualizzare anche le loro storie, financo di avere una contezza della loro qualità di vita.
Siamo cittadini innanzitutto, non malati, non incapaci. Purtroppo secoli di segregazione e di invisibilità hanno creato un’immagine luttuosa e deformata della disabilità, erigendo un muro di pregiudizi, anche inconsapevoli, difficili da abbattere nei sentimenti e nelle coscienze delle persone. E i pregiudizi determinano e giustificano comportamenti personali e scelte politiche e sociali discriminanti.
Ma oggi non possiamo più ignorare che a condizioni idonee le persone con disabilità studiano, lavorano, praticano sport, vanno in vacanza. A condizioni idonee le persone con disabilità frequentano cinema, teatri, musei, ristoranti. A condizioni idonee hanno amici, formano famiglie …
Creare, favorire, promuovere, garantire quelle condizioni idonee è un compito inderogabile anche della politica. Della politica che immaginiamo abbia attenzione e solerzia per tutti i suoi cittadini, senza distinzioni come già ci insegna la nostra Carta Costituzionale.
La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, formalmente recepita dall’Italia [Legge 18/09, N.d.R.], ci indica la strada, ci suggerisce il modo concreto di operare improntando azioni e politiche all’inclusione sociale. Non più all’integrazione. Il termine “integrazione”, infatti, conserva un retrogusto amaro, quello di un corpo estraneo accolto in un contesto altrimenti ostile. L’inclusione presuppone invece un profondo e convinto ripensamento di quel contesto, adeguandolo alle esigenze di tutti.
La Convenzione rifugge da qualsivoglia forma di segregazione. Ogni persona deve poter scegliere dove e con chi vivere, rimanendo in ambienti che il più possibile riproducano il contesto delle relazioni familiari. Al contrario, ancora oggi in Italia 200.000 persone vivono in istituti, in situazioni potenzialmente segreganti.
La Convenzione ribadisce il diritto alla libera scelta, all’autonomia personale, alla vita indipendente. Al contrario le politiche per le persone con disabilità e le loro famiglie sono ancora assai deboli, costrette ciclicamente a subire o rischiare compressioni nelle risorse dedicate.
Un dato per tutti: il 70% delle famiglie con persone con disabilità non fruisce di alcun servizio domiciliare. E meno del 7% si giova di qualche assistenza domiciliare.
I Comuni italiani spendono meno di 8 euro al giorno per disabile e con una profonda disparità territoriale. La Calabria, ad esempio, spende meno di 500 euro all’anno per persona con disabilità contro una media nazionale di 3.000.
Per garantire quelle “condizioni idonee”, quelle “pari opportunità”, c’è ancora molta strada da percorrere. Ad iniziare da una profonda revisione degli stessi criteri di valutazione della disabilità che ancora viene intesa come “problema sanitario del singolo”, come limitazione, come concetto sanitario.
Lo chiedono le famiglie, soprattutto delle persone con maggiore necessità di supporto assistenziale, che nella maggior parte dei casi gestiscono da sole ciò che i servizi non offrono, rinunciando, molto spesso, anche al lavoro. E questo riguarda in particolare e ancora migliaia di donne alle quali è oggi delegato forzosamente quel lavoro di cura che non conta su alcun riconoscimento né assistenziale né previdenziale, da anni e in diverse sedi invocato.
Queste famiglie, in aggiunta, vivono l’ansia del “Dopo di Noi”: «Cosa sarà dei nostri figli domani quando noi non ci saremo più?». Di qui l’esigenza di promuovere nuovi servizi e risposte. Di qui la necessità anche di ripensare rapidamente gli istituti di tutela giuridica in ambito civilistico. Su ambedue gli aspetti, alcune proposte sono già in Parlamento: acceleriamo la discussione e qualifichiamo i contenuti, grazie ad un confronto anche con il nostro movimento. È tempo, è ora!
Quelle “condizioni idonee” le chiedono le persone con disabilità che aspirano a costruire un loro progetto di vita. Vorrebbero poter lavorare e si scontrano con un fenomeno di inoccupazione che le investe in modo esponenzialmente superiore a qualsiasi altro gruppo di potenziali lavoratori.
Mercato del lavoro, servizi per l’impiego, flessibilità organizzativa, mediazione, supporto: sono sfide che solo di recente sembrano essere state raccolte e che attendono – con grande trepidazione e aspettative – di essere trasformate in norme, in linee guida, in azioni, in servizi. Alcuni passi sono stati compiuti, ma è necessario procedere in direzione di una concretezza che coinvolga tutti e a tutti i livelli, senza disperdersi in laceranti divisioni che poco hanno a che spartire con l’inclusione reale.
Quelle “condizioni idonee” le chiedono con forza tutti coloro che hanno necessità di un supporto per consolidare e rendere concreta la propria autonomia, la propria indipendenza. Lo chiedono coloro che vogliono rimanere presso il proprio domicilio ed evitare il ricovero in una RSA [Residenza Sanitaria Assistenziale, N.d.R.], in un istituto. Contribuire a queste istanze significa restituire diritto di cittadinanza, ma – ne abbiamo la certezza – comporta anche investire le risorse del nostro Paese in una direzione diversa dalla segregazione e dall’esclusione sociale. Un buon welfare è motore di sviluppo, oltre che di coesione e di equità. Nelle nostre comunità, nelle nostre famiglie.
Su tutti questi aspetti sono stati sparsi dei semi negli atti parlamentari: interrogazioni, indagini, dossier, proposte di legge. Alcune le abbiamo favorite noi stessi, ma in molti casi bisogna ancora far germinare quanto è stato seminato, accelerando assieme i processi di condivisa produzione normativa, immettendo con oculatezza nuove risorse, affrontando le nuove e vecchie sfide in chiave inclusiva, coinvolgendo convintamente tutti gli àmbiti territoriali, istituzionali e dell’impegno civile. Uno slancio che non è solo per le persone con disabilità, ma per qualsiasi persona viva in questo Paese. Noi quindi, come movimento maturo e consapevole, “ci siamo” in tutti i dibattiti più attuali, non solo quelli di “settore”.
Al tema della povertà e del rischio di impoverimento prestiamo grande attenzione. Lo sappiamo bene – noi – che uno dei primi determinanti della povertà è proprio la condizione di disabilità, che sospinge verso la marginalità, che erode giorno dopo giorno risorse alle famiglie, che impedisce alle persone di entrare o rimanere nel mercato del lavoro.
Al tema dei migranti riserviamo altrettanta sensibilità. Essere migranti e persone con disabilità significa subire troppo spesso una discriminazione plurima. Eppure il tema è tanto misconosciuto quanto davvero drammatico per chi lo vive sulla propria pelle.
E poi ci sono le nuove generazioni, quelle verso le quali nutriamo le maggiori speranze perché davvero potrebbero essere latrici di un nuovo atteggiamento verso la disabilità e verso quella che oggi viene liquidata, con accezione spregiativa, come “diversità”.
È la scuola la prima “palestra” in cui si plasmano i cittadini di domani. E noi puntiamo fortemente a rafforzare una scuola inclusiva e che sappia valorizzare le declinazioni delle persone raccogliendo, in senso stavolta positivo, la diversità.
La scuola che immaginiamo è di tutti e per tutti, con mediazioni e sostegni adeguati, ove le professionalità siano valorizzate, ove ogni bambino e ragazzo sia messo nella condizione di esprimere il massimo e il meglio di sé, sia esso una persona con disabilità o con qualsiasi altra necessità educativa, sia esso un migrante.
Alcune tessere di questo mosaico del futuro già ci sono, come sono evidenti le eccellenze. Altre devono essere cesellate e composte. Sappiamo tutti che vi sono buoni intenti in questa direzione – la delega che il Governo ha attribuito al Ministero dell’Istruzione è una di queste – interventi che necessitano della massima riflessione, condivisione e serietà.
Noi abbiamo imparato a superare la sterile rabbia e l’improduttivo mugugno: siamo a disposizione con le esperienze quotidiane di quei tre milioni di persone, per migliorare la nostra condizione, ma anche la qualità della convivenza civile. Vogliamo e dobbiamo esserci.
Convintamente siamo consapevoli del nostro essere cittadini portatori di diritti e di doveri, ma anche ben consci del nostro orgoglio e della nostra dignità su cui non facciamo sconti a nessuno e su cui non vi sono accomodamenti ragionevoli.
Né oggi, né mai.