Condivido quasi tutte le proposte dell’interessante e ampio articolo di Antonio Ferraro, pubblicato da «Superando.it», con il titolo Una serie di proposte per la riforma del sostegno. Ancora una volta, però, c’è dissenso sul ruolo di sostegno, dove Ferraro si schiera con coloro che lo considerano foriero di separatezza ed emarginazione per il docente di sostegno.
Ho già avuto modo di chiarire in vari scritti, anche su queste stesse pagine, come, in particolare nella scuola secondaria, per supportare il Consiglio di Classe nel farsi carico dell’alunno con disabilità, esercitando la contitolarità con il docente della disciplina, l’insegnante di sostegno debba essere portatore di competenze che il titolare non ha e, soprattutto, di competenze che permettano a quest’ultimo di svolgere proficuamente la sua funzione: potere insegnare all’alunno con disabilità e valutarne il rendimento. Questo attualmente non può avvenire: il docente di sostegno, infatti – spesso abilitato in altra disciplina – non può essere portatore di un valore aggiunto sul piano didattico disciplinare, né la sua insufficiente preparazione sulle modalità di relazione e di comunicazione, sulle metodologie e le didattiche specifiche, oltre alla modesta conoscenza degli strumenti e degli ausili particolari, necessari a rendere efficaci gli insegnamenti ad alunni con specifiche disabilità, gli permettono di affiancarsi “autorevolmente” al docente titolare nel lavoro didattico. La situazione reale che ne consegue è che quest’ultimo rinuncia al suo ruolo di docente in riferimento all’alunno con disabilità e “affida” al docente di sostegno gli insegnamenti. Questi, pur non avendo ovviamente le competenze disciplinari necessarie, procede con un insegnamento individuale, sovente approssimativo, isolandosi sempre più con il “suo allievo” dal contesto della classe, quando, addirittura, uscendone.
Allo stesso modo è dall’esame della realtà che nasce la richiesta di una maggiore specializzazione psicopedagogico-didattica specifica, anche in riferimento alle diverse tipologie di disabilità, dove non c’è nulla di sanitario, a meno di non voler sostenere che, essendo oggi la pedagogia e la didattica non più solo “figlie” della filosofia, ma anche delle scienze psicologiche, ci sia stata una “sanitarizzazione” dell’educazione.
Siamo assolutamente d’accordo che il bambino con disabilità è prima di tutto un bambino, ma è altrettanto vero che – come sostengono le scienze pedagogiche – egli è un “bambino speciale”, prova ne è che è nata appunto la “pedagogia speciale”, scienza che applica ai processi educativi le conoscenze derivanti dalla psicologia e dalle neuroscienze.
Dobbiamo inoltre ricordare che agli inizi dell’integrazione scolastica, quando furono chiuse le “scuole speciali”, queste erano di tre tipi: scuole speciali per i ciechi, per i sordi e scuole speciali “ortofreniche” e in queste ultime venivano accolti gli allievi con le diverse tipologie di disabilità intellettiva. Oggi proprio le scienze psicologiche ci hanno dato indicazioni per capire come relazionarsi positivamente, oltre che con un cieco o un sordo, anche con un autistico, quali siano le modalità più efficaci per favorire l’apprendimento di un bambino con sindrome di Down, quali gli accorgimenti per rendere efficace l’insegnamento a un alunno con DSA [disturbi specifici dell’apprendimento, N.d.R.] e così via. E non stiamo parlando, sia ben chiaro, di processi riabilitativi del disabile, ma di insegnamento al disabile.
Stiamo quindi parlando di educazione e formazione: nulla di sanitario, ma la necessità che nella scuola vi siano le competenze specifiche necessarie a supportare i docenti, per rendere efficaci i loro insegnamenti agli alunni con le diverse disabilità.
Proprio all’insufficiente specializzazione, invece, e conseguentemente alla sempre maggior diffusione della delega dell’alunno con disabilità al docente di sostegno, vanno attribuite, a mio parere, una serie di evidenti “debolezze” del nostro modello di inclusione. In altre parole, dall’analisi della realtà emergono alcune “ambiguità” che caratterizzano l’organizzazione dell’inclusione stessa, ovvero:
– ambiguità del ruolo: un docente non di ruolo di sostegno, ma un docente “utilizzato sul sostegno”, che quindi non fa parte dell’organico di diritto della scuola presso la quale opera;
– ambiguità della funzione: un docente che si affianca al Consiglio di Classe per renderlo competente nell’insegnamento all’alunno con disabilità o al docente dell’alunno con disabilità, essendo tuttavia incapace di supportare il Consiglio di Classe, al di là di ciò che recita la normativa, e diventando quindi l’insegnante unico dell’alunno con disabilità;
– ambiguità nella scelta professionale: quasi mai quella dell’insegnante di sostegno è una scelta professionale “per la vita”, ma è una scelta “provvisoria e temporanea”, “di ripiego”, se non “per opportunità”, allo scopo di entrare nella scuola: ciò significa bassa motivazione e scarso interesse alla specializzazione;
– ambiguità nella definizione dei bisogni educativi quasi sempre fondati sulla diagnosi e non motivati dagli interventi didattici previsti nel PEI [Piano Educativo Individualizzato, N.d.R.]. A tal proposito, quante volte ho visto scritto al termine della diagnosi del neuropsichiatra «il soggetto necessita del rapporto uno a uno» e quante volte i giudici hanno basato le loro sentenze su queste diagnosi. Lasciare che la definizione delle necessità di ore per il “sostegno didattico” sia determinata da una diagnosi e non da un progetto educativo, questo sì che è delegare alla sanità la principale prerogativa dell’educazione, quella didefinire i bisogni formativi dell’alunno.
Infine, mi risulta incomprensibile il perché non si possa fare il docente di sostegno a vita. Sarebbe come dire che non si può fare il neuropsichiatra o l’educatore specializzato a vita: non è che questa convinzione trovi anch’essa spiegazione nel “non ruolo” che oggi caratterizza l’azione del docente di sostegno?
Su una cosa, per altro, siamo tutti d’accordo, ovvero sul fatto che l’inclusione scolastica si sia dimostrata la strada giusta per l’educazione di tutti. E tuttavia, il modello organizzativo dopo quarant’anni mostra tutta la sua inefficienza, con il rischio di pericolosi “ritorni al passato” (si pensi alla crescente diffusione delle cosiddette “aule di sostegno”).
Per questo è necessario e urgente uscire da posizioni di “schieramento” e avviare un confronto tra tutti gli attori, senza però muoversi da posizioni ideologiche e teoretiche preconcette. Bisogna infatti avere il coraggio di partire non dalle situazioni “di eccellenza”, né dal “come avrebbe dovuto essere” l’attuale modello di inclusione, bensì, dopo quarant’anni di esperienza, dall’analisi di come esso si è venuto concretizzando nella maggior parte dei casi, dalle ambiguità che lo caratterizzano e dai suoi punti di debolezza denunciati dalle famiglie e verificabili da chiunque entri in una scuola.
*Responsabile operativo della Commissione Nazionale Istruzione dell’UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti).
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