Il filmato Violences du silence, diffuso nello scorso mese di ottobre, è stato realizzato dall’Associazione francese FDFA (Femmes pour le Dire, Femmes pour Agir), composta da donne con disabilità, ma aperta a chiunque (uomo o donna, disabile e non) condivida l’obiettivo di lottare contro la doppia discriminazione ingenerata dall’essere contemporaneamente donne e persone con disabilità.
Si tratta di un documento di straordinario interesse poiché, cosa più unica che rara, raccoglie le testimonianze di otto donne con disabilità vittime di violenza. Tratto da storie vere, esso riesce a illustrare con singolare efficacia alcune delle molteplici declinazioni specifiche in cui può manifestarsi la violenza nei confronti delle donne con disabilità.
Poco più di diciannove minuti sono sufficienti a mostrare anche – implicitamente – quali siano gli accorgimenti necessari e indispensabili (audiodescrizione e sottotitolazione) perché un prodotto culturale realizzato attraverso un audiovisivo diventi accessibile anche a persone con disabilità sensoriali. L’accessibilità, del resto, dovrebbe essere garantita per qualsiasi comunicazione rivolta alla cittadinanza e vale sempre la pena ricordare che la mancanza di essa produce discriminazione e che la discriminazione è essa stessa una forma di violenza.
A un paio di settimane dal 25 novembre, Giornata Internazionale per l’eliminazione della Violenza sulle Donne, quando cioè la memoria delle tante iniziative di sensibilizzazione sul tema è ancora relativamente vivida, possiamo constatare con sconcerto che solo pochissime di esse sono state realizzate con criteri di accessibilità universale. Molti i contenuti informativi affidati solo alle immagini, e dunque inaccessibili alle persone cieche. Innumerevoli i dialoghi privi di sottotitolazione, e dunque preclusi alle persone sorde. Tanti i convegni senza un servizio di trascrizione simultanea degli interventi, e anche qui sono le persone sorde quelle che rimangono tagliate fuori. Iniziative contro la violenza che discriminano e, dunque, producono violenza. Sbagliamo, o c’è qualcosa che non va?
Blindsight Project, Associazione da sempre in prima linea sui temi dell’accessibilità dei contenuti informativi e dei prodotti culturali, si è presa l’impegno di tradurre, sottotitolare e audiodescrivere in italiano il filmato dell’Associazione FDFA.
Il lavoro è stato realizzato dall’Associazione CulturAbile, ed è stato presentato ufficialmente da Laura Raffaeli, presidente di Blindsight Project, al Secondo Workshop Nazionale intitolato Violenza di genere e donne con disabilità: “non porgere l’altra guancia”, promosso a Perugia dalla Rete delle donne AntiViolenza, il 28 e 29 novembre scorsi.
Le protagoniste di Violenze del silenzio sono donne di età diverse, con disabilità e situazioni differenti. Di seguito mettiamo in evidenza alcuni aspetti importanti delle loro storie.
Chantal ha 50 anni, dice di essere sorda (ma in realtà è ipoacusica: sente malissimo), e utilizza la lingua dei segni per comunicare. Subisce dal marito insulti verbali con cui le rinfaccia la sua disabilità («sorda-idiota», «pazza», «lo fai apposta», «senti solo quello che vuoi sentire»), e percosse (schiaffi e calci) per futili motivi (la carne troppo cotta). I figli, lungi dal difenderla, la deridono. Anche il figlio maggiore le usa violenza fisica.
Oltre a lavorare fuori casa, Chantal svolge tutte le faccende domestiche, ma questo non la mette al riparo dalla violenza. Esasperata, ha provato a ribellarsi, ottenendo solo altre violenze e minacce di morte. Lei dice di non poter parlare con nessuno della sua situazione. Non sente e nessuno la capisce. Molte donne vittime di violenza lamentano di subire insulti e percosse, ma nel caso di Chantal queste azioni trovano un pretesto specifico nei suoi problemi di udito, e anche l’isolamento nel quale si sente confinata è spiegato in ragione delle sue difficoltà a comunicare e a farsi capire. Il comportamento dei figli lascia supporre che assistere alla violenza nei confronti della madre li abbia indotti a ritenere che questa sia una pratica legittima.
Cécil ha 30 anni, una disabilità motoria che l’ha portata a spostarsi in sedia a rotelle e una progressiva perdita della vista. Due anni fa ha sposato Nicolas. Da allora sia la vista che i problemi motòri si sono accentuati, rendendo difficile ad entrambi l’accettazione del doppio handicap.
Il marito sembrava distante, poi è diventato ostile, violento, perverso. In presenza di altre persone continuava ad essere gentile, ma in privato litigava con Cécil per qualunque cosa. Faceva girare la sua sedia a rotelle a tutta velocità e lanciava Cécil contro il muro. La picchiava spesso, e, quando uscivano inventava dei giochi umilianti (come rovesciarle della Coca Cola tra i capelli). Rideva di tutto ciò, poi la lasciava sola per strada, bagnata, disorientata e in lacrime. Trovandosi su una strada in discesa, poi, prendeva la sedia a rotelle e la lanciava a tutta velocità. Lei gridava per la paura.
Cécil vorrebbe divorziare, ma non crede di poterlo fare. Anche in questo caso il controllo e la sopraffazione sono agiti facendo leva sulla disabilità di Cécil, sfruttando la sua minore forza, e trasformando uno strumento di autonomia (la sedia a rotelle) in uno strumento di tortura.
Un altro importante elemento da mettere a fuoco riguarda il fatto che Cécil, avendo importanti limiti di autonomia, ha bisogno del supporto del marito nello svolgimento di alcune attività quotidiane (ad esempio, sembra avere difficoltà a rientrare a casa quando il marito la lascia sola per strada). Questa dipendenza rende molto più difficoltoso, rispetto alle altre donne senza disabilità, il percorso di emancipazione dalla violenza.
Elsa ha 40 anni ed è interessata da acondroplasia, la più diffusa forma di nanismo (è alta un metro e venti). Mentre cammina per strada, denuncia come i mezzi pubblici, e in generale le infrastrutture, si rivelino obsolete e inadatte non solo alle persone della sua statura, ma anche a persone con altre disabilità (doverle utilizzare diventa «un calvario»).
Le violenze quotidiane che riscontra sono la stupidità, l’egoismo e l’inciviltà delle persone. Sulla metro si sente invisibile. Spallate, spintoni, gomitate, calci… gli zaini. Anche se si mette a urlare, la gente non la considera. Lei si sente soffocare, le manca l’aria. Negli orari di punta le passano sopra, la schiacciano contro le porte che si aprono e si chiudono. Il tutto nell’indifferenza generale. Un giorno, sul binario della metro, un uomo l’ha presa per un braccio e l’ha gettata per aria. Rideva. Nessuno ha fatto niente. Lei era terrorizzata. Lui l’ha lanciata come se fosse un oggetto. Lei è rimasta immobile sul binario. Per lei la violenza quotidiana è l’indifferenza nei confronti delle persone con disabilitò o più deboli. Ogni giorno si convince sempre di più di non essere come gli altri.
Siamo abituati a pensare alla violenza come ad un’azione manifestamente cruenta. E certamente l’azione cruenta rientra nella definizione di violenza. Ma il racconto di Elsa ci ricorda che anche assistere alla violenza e non prestare attenzione, non fare niente, non reagire è una forma di violenza, la forma che Elsa sperimenta con maggior frequenza.
Karima ha quasi 19 anni, cammina con grande difficoltà, vede e sente molto male, si sposta in sedia a rotelle. Non sa quale sia la sua malattia. Viveva con i suoi, ma questi non si prendevano cura di lei. Nessuno lo faceva. Stava tutto il giorno seduta davanti alla TV, oppure in camera sua, senza fare niente. Il padre diceva che con lei la sfortuna si era abbattuta sulla famiglia, e che sarebbe stato meglio se fosse morta alla nascita. Le piaceva mangiare, ma le toglievano il cibo per farla pesare di meno le volte che suo fratello la aiutava ad uscire.
È stata per tre mesi fuori dalla Francia, e ogni giorno, con la complicità di suo padre, gli uomini della famiglia (cugini, nipoti, zii, fratelli) «facevano l’amore» con lei, come dicevano loro. In realtà la violentavano. Lei ha pianto molto. Le sembrava di non esistere più. Doveva fingere di provare piacere, fingere di averne voglia, anche se le faceva male, altrimenti la insultavano («puttana, stronza!») e la picchiavano.
Il ritorno in Francia è stato difficile. Conclude la sua testimonianza con questa frase: «Oggi ho oglia di morire». La mancanza di cure, la denigrazione per la propria condizione di disabilità sono esempi di violenze specifiche legati alla disabilità; disporre di Karima come oggetto sessuale condiviso a livello familiare, invece, si configura maggiormente come un esempio di violenza legata al genere.
Olivia ha 47 anni e in seguito a un ictus ha problemi di deambulazione, cammina con il bastone, ha difficoltà a parlare, e ha subito una tracheotomia. Ha una figlia di 25 anni, una ragazza difficile. A causa delle sue difficoltà, Olivia ha dovuto smettere di lavorare. La figlia le rimprovera la malattia. Le dice che è una buona a nulla, che la irrita, che non è la sua badante, che la esaspera. Da due anni la picchia e le nasconde il bastone quando esce. Le ha tolto anche il cellulare.
Olivia si sente sola e si chiede cosa possa fare nelle sue condizioni. Osserva: «In fondo è mia figlia, l’ho messa io al mondo.» Una volta sua figlia le ha tirato i capelli così forte da farla cadere per terra, dove è rimasta per lungo tempo. Ai soccorritori Olivia ha detto di essere scivolata. Davanti agli altri la figlia è gentile, si prende cura di lei, è premurosa, e gli altri credono che sia davvero così. Un giorno, per vendicarsi, la figlia le ha messo la mano sul tubo della tracheotomia. Olivia non riusciva più a respirare, le sembrava di soffocare. Anche in questo caso la conclusione è amara: «La disabilità rende folli gli altri».
Come già abbiamo avuto modo di notare, nelle mani di chi usa violenza gli ausili (il bastone e persino il tubo della tracheotomia) possono diventare strumenti di controllo e di tortura. È inoltre importante notare che anche nel caso in questione l’aggressore usa la disabilità (non il genere) della vittima come pretesto per la violenza , e che si tratta di una donna (dato statisticamente meno frequente, ma comunque possibile).
Claire ha 42 anni ed è cieca. Si è appena sposata ed esprime ancora meraviglia per essere riuscita a sposarsi malgrado la cecità. Descrive il marito come un uomo gentile, ma a volte autoritario e impaziente. Un giorno, senza volerlo, Claire ha rovesciato un bicchiere col vino sulla tovaglia. Lui è diventato pazzo furioso, l’ha presa a schiaffi, e l’ha insultata: «Devi stare attenta… stronza!». Lei si assume la colpa di queste reazioni: essendo cieca, pensa di essere lei ad esasperarlo. Lui le dà una quindicina di schiaffi al giorno (che sono diventati una sorta di rituale), le rinfaccia la cecità, e pretende atti di sottomissione (lei gli deve baciare i piedi).
Claire non sa spiegarsi questa condotta, ma dichiara di amarlo. Nasconde i lividi con un foulard e lo copre quando i colleghi le fanno delle domande (sostiene che i lividi sono dovuti a cadute). Afferma: «Sono costretta a mentire perché sono alla sua mercé». Anche in questo caso, come già in quello di Cécil, la frase conclusiva lascia trapelare la dipendenza della donna che subisce violenza dalle cure prestate dal suo aggressore.
Anne ha 20 anni e ha la sindrome di Down. Le piace ridere, mangiare e uscire come tutte le ragazze della sua età, ma le persone la insultano chiamandola «idiota», «faccia di scimmia», o «bavosa».
Dice di amare Chérif, e di essersi sentita ricambiata da lui. Per questo lo ha seguito nel suo Paese, dove l’ha sposato. Si sentiva bellissima con gli abiti tradizionali e racconta che la festa è stata da favola. Tutti la abbracciavano e le facevano gli auguri. Poi, tornata in Francia, le cose sono cambiate. Vive rinchiusa in casa, e il padre di suo marito la picchia, la tocca, la violenta.
Non può ribellarsi perché lui l’accusa di mentire, e gli altri fanno finta di non credere al suo racconto. Grazie al matrimonio, suo marito ha i documenti per rimanere in Francia, e, non avendo più bisogno di lei, minaccia che la ucciderà e la «getterà nell’immondizia». Anne pensa di essere una bella ragazza, ma gli altri la picchiano, la violentano, e, a volte, la bruciano con la sigaretta. Deve dire a suo marito di amarlo, altrimenti lui la picchia. Le ha rotto un braccio. In ospedale si chiede: «Chi mi salverà?».
La storia di Anne ci permette di toccare un aspetto molto delicato e complesso: il fatto che le persone con disabilità intellettiva o psichica spesso non sono ritenute attendibili quando affermano di subire violenze. È invece molto importante non dare mai per scontata l’inattendibilità delle loro affermazioni, e verificare – sempre – se esse sono plausibili e supportate da riscontri di altro tipo. Molti aggressori prendono di mira proprio donne con questo tipo di disabilità confidando appunto sul fatto che non siano in grado di rivelare gli abusi e che, anche se lo facessero, nessuno le prenderebbe sul serio.
Solange ha 52 anni, è nata senza braccia e senza gambe perché la madre, mentre era in gravidanza, fu una delle vittime della tristemente nota “tragedia del talidomide” (o thalidomide), farmaco utilizzato come sedativo e antinausea negli Anni Cinquanta e Sessanta che – come si è scoperto in seguito – provocava gravi malformazioni congenite nel nascituro. Per la sua autonomia utilizza la sedia a rotelle e le protesi.
A vent’anni ha conosciuto Jean-Claude, che di anni ne aveva venticinque. Lui era simpatico, attento, gentile. Si sono innamorati. Una coppia come le altre, anche se fare l’amore era un po’ complicato, e lui le imponeva la sua volontà. Un giorno Solange si è ribellata ed è iniziato l’inferno. Jean-Claude la picchiava, la insultava, poi si scusava e diceva di amarla. Diventava ogni giorno più violento e la picchiava per qualunque cosa. Le ha persino nascosto la sedia a rotelle e le protesi. La faceva cadere, e quando era a terra la prendeva a calci. La violentava più volte al giorno. Lei si è vista morta, ma ha trovato la forza di reagire: «Oggi sono fuori da quell’inferno. Posso rincominciare».
Anche rispetto alla storia di Solange valgono le osservazioni già fatte riguardo all’uso degli ausili. Inoltre possiamo notare che, delle otto testimonianze raccolte, questa è l’unica che si conclude positivamente.
Si tratta di racconti che suscitano indignazione, com’è giusto. E tuttavia l’indignazione non basta. Non sappiamo dire come funzionino le cose in Francia, ma in Italia la quasi totalità dei Centri Antiviolenza non dispone delle competenze e delle strutture adatte ad affrontare le complessità che solitamente si riscontrano nei casi in cui la vittima di violenza è una donna con disabilità (la riflessione iniziale sull’accessibilità delle iniziative di sensibilizzazione sul tema ne è una conferma). E d’altra parte, chi si occupa di disabilità – a parte rare eccezioni – non si interessa di violenza.
Questa organizzazione dei servizi si presta con facilità al “gioco dello scaricabarile” (un meccanismo ben descritto da Raffaele Monteleone, docente di Politiche Sociali presso il Laboratorio di Sociologia dell’Azione Pubblica “Sui generis”, all’Università di Milano-Bicocca; se ne legga qui). Detto in modo ancora più chiaro: se le protagoniste del filmato fossero italiane, anche se decidessero di chiedere aiuto, rischierebbero di trovare molte porte chiuse. La cose da fare sono tante. Una delle più urgenti è parlare di “presa in carico” delle vittime di violenza con disabilità.
Per approfondire ulteriormente:
° Violences du silence, realizzato da FDFA (Femmes pour le Dire, Femmes pour Agir), ottobre 2015, filmato (19.13 minuti), in lingua francese, con sottotitoli e audiodescrizione.
° Violenze del silenzio, realizzato da FDFA (Femmes pour le Dire, Femmes pour Agir), traduzione sottotitolazione e audiodescrizione a cura di Blindsight Project (titolo originale Violences du silence), 28 novembre 2015, filmato (18.36 minuti), in lingua italiana.
° Sito dell’Associazione FDFA (Femmes pour le Dire, Femmes pour Agir).
° Sito dell’Associazione Blindsight Project.
° Sito dell’Associazione CulturAbile.
° Piattaforma PASSin, che raccoglie informazioni su iniziative culturali accessibili alle persone con disabilità sensoriali, con difficoltà di vista e/o di udito.
° Il mondo sommerso delle cure negate: la nuova violenza verso i disabili, in «Redattore Sociale», 2 dicembre 2015.
° Nadia Muscialini e Armando Cecatiello (intervista a), Disabilità e violenza domestica, a cura di Simona Lancioni, Gruppo Donne UILDM, 24 novembre 2015 (ripresa da «Superando.it», con il titolo Donne con disabilità di fronte alla violenza).
° Recensione della monografia La vie en rose. Donne con disabilità: inventare e gestire percorsi di uscita dalla violenza, pubblicata da «HP Accaparlante» (n. 2, 2015), che raccoglie gli atti del 1° Workshop Nazionale dedicato al tema della violenza nei confronti delle donne con disabilità (Milano, 1° dicembre 2014), a cura di Simona Lancioni, Gruppo Donne UILDM, 19 novembre 2015.
° Marta Sousa, Le donne con disabilità e la ruota del potere e del controllo, Gruppo donne UILDM, 21 novembre 2013 (ripreso da «Superando.it», con il titolo Donne con disabilità: la ruota del potere e del controllo).
° Pagina Contro la violenza sulle donne, a cura del Gruppo Donne UILDM, contenente documentazione varia sul tema della violenza nei confronti delle donne con disabilità.