Di recente molto si è discusso di scuole speciali. È con curiosità ed interesse, come genitore di un soggetto disabile, ma anche – se mi è consentito – come ex insegnante (per inciso non sul sostegno) con trentasette anni di servizio nella scuola pubblica, che mi permetto di inserirmi in punta di piedi nel dibattito in corso, per provare a comprendere meglio le ragioni di un malessere che personalmente giudico ben più diffuso di quanto appaia a una prima lettura di alcuni autorevoli commenti, pubblicati sugli organi di stampa e sul web.
Ci troviamo di fronte a un profondo disagio che sarebbe riduttivo sottovalutare e peggio ancora banalizzare ricorrendo a semplici parole d’ordine, a cominciare dagli appelli all’“inclusione” e/o alla “scuola di tutti”, refrain sicuramente utili a strappare consensi e applausi in occasione di iniziative allestite ad hoc, ma che, lo confesso, poco o nulla suggeriscono ormai a me e (forse) a tanti.
In effetti inclusione è una bellissima parola: dà l’idea, se riferita all’istituzione scolastica, di una scuola pronta ad accogliere in modo pieno e consapevole la diversità… Ma siamo sicuri che interpreti appieno il contesto reale che tanti disabili, e con loro le famiglie, vivono ogni giorno?
Altrettanto affascinante, ne convengo, è parlare di “scuola di tutti”… Peccato che molto spesso i nostri figli siano confinati nei corridoi o in angusti locali, cui ognuno assegna i nomi più bizzarri (a cominciare da “aule speciali”… Speciali in cosa?), dove si ritrovano non di rado soli, lontani da quei “tutti” retoricamente evocati a ogni piè sospinto, alla faccia di un’integrazione spesso solo di facciata.
Ebbene: se non iniziamo la nostra disamina da qui, da questo frame niente affatto irrilevante, il rischio è di non riuscire a comprendere fino in fondo l’intero film cui stiamo assistendo e di interpretare male le voci di protesta e la rabbia di tanti protagonisti, a iniziare da quei familiari che, delusi da una scuola che non riesce in modo giusto ad accogliere i loro figli “speciali”, non possiamo certo condannare perché fuori dal coro. Sbaglieremmo a farlo, per la semplice ragione che raccontano la verità, quella fatta di mancanza di risorse umane e strumenti materiali, classi sovraffollate, docenti di sostegno precari che lavorano a incarico passando da una scuola all’altra, spazi inadeguati e, se esistenti, peggio strutturati, formazione carente, barriere architettoniche e culturali lontane dall’essere realmente rimosse, dirigenti scolastici che non conoscono la normativa o non vogliono applicarla, fingendo, ad esempio, di non sapere che l’allievo con disabilità va preso in carico da tutto il team scolastico (e non dal solo insegnante di sostegno), come prevedono le Linee Guida Ministeriali.
Si è davanti ad errori e contraddizioni che ogni anno si susseguono sempre uguali, fino a spingere i genitori alla disperazione, con frequenti ricorsi ai TAR [Tribunali Amministrativi Regionali, N.d.R.] quasi sempre vinti, tanto più comprensibile se si tiene poi conto dell’atavica scarsa continuità didattica, che scarica come ben sappiamo i suoi effetti perversi proprio sugli allievi più fragili.
Come ignorare che in dieci anni la percentuale degli alunni con disabilità che frequentano le scuole italiane è cresciuta del 40%? In un recente focus del Ministero è emerso che nello scorso anno scolastico essi erano poco meno di 235.000, rappresentando il 2,7% della popolazione scolastica, a fronte dell’1,9% del 2004-2005.
Primaria e secondaria di primo grado sono gli ordini di scuola con una maggiore presenza di alunni con disabilità. I maschi sono il 68,8% del totale. Il 95,8% degli alunni con disabilità ha un problema psicofisico, l’1,6% una disabilità visiva, il 2,7% una disabilità uditiva. Oggi abbiamo ancora un docente di sostegno precario su quattro. Che, detto in numeri, corrisponde ad appena 96.000 posti coperti con personale di ruolo, a fronte di quasi 230.000 necessari. Sono precari, non stabilizzati, oltre 33.000 posti di sostegno, il 26% circa.
A fronte di una crescita degli alunni con disabilità del 40% in dieci anni, i docenti di sostegno sono cresciuti solo del 12%!
Come ignorare, inoltre, che l’attuale normativa prevede che in una classe con 20-25 alunni possa essere inserito un solo studente con disabilità e se invece ce ne sono due la classe deve essere composta da meno di 20 ragazzi? Rivelo un segreto se dico che di fatto non è così e che le classi sovraffollate sono ovunque? No, non è un segreto…
Ricordo che secondo gli stessi dati del Ministero, sono ben 5.500 le classi in cui sono presenti più di 2 alunni con disabilità.
Sarebbe doveroso, a questo punto, fare una sana autocritica da parte di quelle forze politiche che si sono succedute al governo del Paese nel corso degli ultimi decenni, tutte più o meno incapaci di esprimere uomini e strategie in grado di aggredire efficacemente le tante contraddizioni e i tantissimi limiti dell’offerta formativa ed educativa.
E invece su «Vita.it» si legge una dichiarazione del sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone in cui, lungi dall’avviare una seria riflessione sulla realtà del sostegno, apprendiamo che: «Abbiamo lottato per eliminare ghettizzazioni e per favorire un’inclusione a tutti i livelli della società; se qualcosa non va nel sostegno ai ragazzi disabili va solo migliorata». Ma davvero egli pensa che l’attuale “integrazione” offerta dalla scuola sia a misura dei bisogni speciali dei nostri figli? Che, in particolare, vi sia una formazione specifica da parte dei docenti di sostegno (e perché no? di quelli curricolari) nell’affrontare disabilità che una tale specializzazione, con tutta evidenza, richiedono in modo imprescindibile? Se fosse così, non ci resterebbe che prendere atto di quanto labili siano diventati i confini tra immaginazione e realtà!
La mia sensazione è invece che i genitori si convincono ogni giorno di più che le cose non stanno come avevano legittimamente sperato, e per conseguenza cominciano a valutare opzioni diverse. Sarebbe bello se davanti a questo scenario, anziché limitarsi a parole di circostanza, servizi, scuola e associazioni si sedessero attorno a un tavolo per chiedersi: «Dov’è che abbiamo fallito? Dov’è stato il problema?».
Eh già: perché non è sempre vero che il problema è la gravità della patologia che afferisce il bambino o l’adolescente con disabilità. Spesso il problema vero è che il contesto attorno a lui è stato, ed è, gravemente escludente. Se capiamo ciò, non faremo fatica a comprendere che più di ridondanti mozioni degli affetti, è importante che il mondo della scuola, dei servizi, delle associazioni sia immediatamente disponibile a mettersi in discussione, a modificare il proprio modo di lavorare, perché solo questo cambiamento permetterà, domani, all’allievo disabile di rimanere nella scuola di tutti. Dunque… o si realizza uno sforzo serio per rendere davvero inclusiva e integrante la scuola della Legge 104 oppure, volenti o nolenti, dovremo rassegnarci all’affermazione di altro!
Alla luce di queste considerazioni dico allora, molto umilmente, che è sbagliato avere preconcetti contro le scuole speciali. Naturalmente penso a scuole degne di tal nome, che siano davvero meglio di un’integrazione tutta “chiacchiere e distintivo”, quale quella che molto spesso vivono i nostri figli.
Le famiglie non sanno che farsene di belle leggi e di intenzioni nobili che restano sulla carta. Vogliono efficacia. Vogliono una pedagogia speciale per i loro cari. Non si accontentano di tenerli parcheggiati, rivendicano – a ragione – scuole con supporti e personale qualificato, organizzate in classi ordinarie integrate e gruppi-classe di alunni disabili, con una programmazione “su misura” e momenti di integrazione con gli studenti normodotati ecc.
Avere questi obiettivi, e ricercarli in scuole speciali, non offende nessuno: siamo solo davanti a una più che legittima risposta da parte di chi non desidera essere messo sotto scacco rispetto agli apprendimenti e alla crescita educativa del proprio figlio. Se non vengono rimossi gli ostacoli e se le leggi non vengono applicate, il percorso scolastico risulta null’altro che una beffa e le parole inclusione e integrazione impronunciabili.
È arrivato il momento di sostituire la retorica dell’inclusione con la cultura dell’inclusione, e ciò va detto schiettamente, senza paraocchi , riconoscendo e denunciando le responsabilità ovunque e di chiunque.
Padre di una persona adulta con autismo, insegnante e scrittore, autore del libro Mio figlio è autistico (Vannini, 2013). Cura un blog dedicato anch’esso all’autismo (qui la pagina Facebook).
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