Saverio Tommasi, reporter di «Fanpage.it», ha appena concluso un progetto correlato a #vorreiprendereiltreno, campagna contro le barriere architettoniche ideata da Iacopo Melio [se ne legga anche su queste pagine, N.d.R.], che consisteva nel postare ogni giorno alle 22, sulla sua pagina Facebook, delle foto di persone con disabilità, allo scopo di «rendere le barriere, architettoniche e mentali, un retaggio del passato. Renderle moralmente intollerabili come l’incesto o come vorremmo diventasse, per tutti, la guerra», come scrive sulla pagina.
Incuriosita dall’iniziativa, ho voluto mandare tramite Iacopo Melio due mie foto, di cui una mi ritraeva con la corona d’alloro in occasione della mia recente laurea: Tommasi le ha pubblicate e in men che non si dica sono arrivati centinaia di likes e decine di commenti, anche via posta privata.
La gente mi faceva le congratulazioni per il mio eccellente risultato, per la tenacia con cui avevo affrontato il percorso accademico, e ricorrevano spesso espressioni come «sii bandiera delle persone che hanno il tuo stesso problema» o «sei un esempio».
Vorrei chiarire innanzitutto una cosa: io non sono un esempio, né tanto meno voglio esserlo e adesso spiego il perché. Perché non ho fatto nulla di straordinario. Prendere 110 e lode può essere definita “una cosa straordinaria”? D’accordo, effettivamente magari non è da tutti, ma bisogna avere ben chiaro il motivo. Se infatti il pensiero di fondo è «che brava, è riuscita ad ottenere la laurea malgrado la sedia a rotelle!», si è totalmente fuori strada.
Con le mie foto e in concordanza con il messaggio del progetto di Saverio, volevo far capire che al cervello non serve la sedia a rotelle, che prendere 110 e lode alla laurea è qualcosa di totalmente slegato dalla mia disabilità, cercando quindi di abbattere le barriere mentali. Non volevo assolutamente far leva sulla mia condizione per ottenere likes, approvazioni e complimenti: semplicemente perché – senza voler risultare vanitosa – io so di essere stata brava, so di avere vinto una mia personale battaglia combattuta su vari fronti. Tutti i commenti sono stati da me ampiamente apprezzati, ovviamente, ma hanno soltanto confermato una consapevolezza che, fortunatamente, avevo già acquisito autonomamente dentro di me.
Non sono un esempio perché sono una persona come mille altre persone, e come mille altre persone che hanno preso 110 e lode, e come mille altre persone in carrozzina che hanno preso 110 e lode. Non è una cosa straordinaria. È una cosa che possono fare molte altre persone, proprio perché la mia disabilità non ha interferito in alcun modo, quindi io non ho nulla di diverso dagli altri, nel bene o nel male.
Non sono un esempio perché non vorrei mai essere messa in una posizione di superiorità per qualsiasi ragione, il che potrebbe rischiare di generare reazioni spiacevoli. Guardo a persone con disabilità che hanno fatto “più di me”, come ad esempio Sofia Righetti, campionessa nazionale di sci alpino, Antonella Ferrari, attrice e scrittrice, Serena Scipione, nuotatrice paralimpica e molte altre: hanno fatto grandi cose e le ammiro, ma penso che il messaggio che vogliano dare è che tutti possono farle. Ed è questo ciò che, analogamente, vorrei comunicare io in queste occasioni. Non c’è nessuno che non possa essere straordinario. Basta che scopra le proprie passioni e che persegua i propri sogni, ecco i due ingredienti principali.
Non bisogna essere un esempio per gli altri, ma innanzitutto bisogna esserlo per noi stessi.
La presente riflessione è già apparsa nel sito del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), con il titolo “Io un esempio? No, grazie!” e viene qui ripresa, con alcuni minimi riadattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.
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