È già quasi passato un anno e mezzo da quando Cesare Padovani se n’è andato nell’ottobre del 2014. La notizia della sua scomparsa è rimasta limitata alle cronache locali di Rimini e San Marino, dove viveva e lavorava, e solo casualmente, citandolo in una discussione su una mailing list, ho trovato in internet la notizia della sua scomparsa.
Nessuna notizia nei vari siti e newsletter dell’area sociale o, nello specifico, della disabilità. Ma tutto questo ha una ragione. Cesare, infatti, pur essendo anche una persona disabile dalla nascita per via di una paralisi cerebrale infantile, non aveva legato il suo nome a questa tematica, non apparteneva alla schiera dei “disabili eccellenti” che la cultura del “diversamenteabile” ci ha proposto negli ultimi decenni.
Aveva una laurea, scriveva libri, aveva insegnato Psicologia all’Università di Padova, ma non si proponeva mai attraverso questi biglietti da visita. Preferiva i contenuti ai contenitori e soprattutto non riusciva a togliersi dalla faccia quel suo sorriso “furbetto”, che fa scrivere alla nipote Elena, nell’articolo con cui ricorda lo zio nel suo blog, forse il ricordo più vero e tenero che si possa fare di Cesare: «Porto nel cuore la tua ironia e il tuo sguardo che a volte ti faceva fanciullo e divertito nel progettare monellerie».
Proprio così, con le due parole fanciullo e monellerie a significare che Cesare poteva stare sia dentro ai fumetti di Bibì e Bibò che nelle discussioni più dotte e intellettuali, sia nella disabilità Anni Cinquanta, fatta di laboratori protetti, di camici azzurro scuro, di ferraglie ortopediche, di minestrine in brodo con la cena serale all’istituto, sia dentro la cultura dell’empowerment, del politically correct, dell’autonomia, delle tecnologie e dei profili sui social.
E nemmeno parlava tanto del suo rapporto epistolare con Pier Paolo Pasolini di cui traccia un bel ricordo Davide Brullo sulle pagine del «Giornale» e mi piace pensare che sia bello che proprio il giornale della famiglia Berlusconi ricordi Cesare, uomo da sempre di sinistra e, appunto, fuori dagli schemi.
Il carteggio tra Padovani e Pasolini è riportato in appendice in un volume di Cesare uscito postumo e pubblicato nel novembre del 2014 da Guaraldi, che contiene una raccolta di racconti inediti (Da uomo a uomo).
Più recentemente si era occupato molto dei miti greci su cui aveva scritto parecchio, mentre la sua saggistica sulla disabilità è limitata, per quanto ne sappia io, agli Anni Settanta, quando uscirono due suoi volumi, La speranza handicappata (Guaraldi, 1974) e Handicap e sesso: omissis. Elogio alla disobbedienza sessuale (Bertani, 1978).
Per alcuni anni aveva anche collaborato con «HP-Accaparlante», la rivista del CDH (Centro Documentazione Handicap) di Bologna (se ne possono trovare qui i suoi articoli) ed è proprio a quell’àmbito che risale la mia conoscenza con lui, iniziata con la presentazione del suo volume La speranza handicappata a Bologna nel lontano 1984.
Mi piace ricordarlo con la fotografia del suo sorriso, pubblicata qui sopra, una foto “da monello”, e anche con un brano tratto da La speranza handicappata, un brano che ci dà conto dello scorrere del tempo, e delle relative culture e linguaggi, attraverso alcuni termini che Cesare usa («soffitte sottoproletarie», «scuole speciali», «odore di classe»…), ma che ci ricorda che come allora non si può non passare che attraverso l’organizzazione della propria speranza, individuale e collettiva insieme: «L’odore di spastico: nel mio curriculum per partecipare al prossimo concorso per una cattedra all’Università ci ho messo tutto: che sono spastico, che ho 35 anni, che sono di ruolo negli istituti tecnici, sposato, che ho tali pubblicazioni, che svolgo attività politico-culturali, che mi dedico all’arte, al giornalismo, eccetera eccetera. Implicitamente che sono un uomo felice, un uomo pieno, integrato, completo… suvvia, diciamolo, uno spastico arrivato e tutto da solo!» [qui in calce il passaggio integrale del libro di Cesare Padovani, da cui è tratto il presente brano, N.d.R.].
L’odore di spastico
di Cesare Padovani*
«Nel mio curriculum per partecipare al prossimo concorso per una cattedra all’Università ci ho messo tutto: che sono spastico, che ho 35 anni, che sono di ruolo negli istituti tecnici, sposato, che ho tali pubblicazioni, che svolgo attività politico-culturali, che mi dedico all’arte, al giornalismo, eccetera eccetera.
Implicitamente che sono un uomo felice, un uomo pieno, integrato, completo… suvvia, diciamolo, uno spastico arrivato e tutto da solo! Con le dovute proporzioni, nemmeno Rockefeller ha fatto tanta strada. Di questo passo, una mattina, probabilmente, mi sveglierò con un sorriso etrusco sulla faccia.
Ho perduto tanto tempo, adesso bisogna recuperarlo e quanto prima.
Malcolm X ha capito che finalmente doveva tornare a rivedere il suo ghetto, e ci è tornato e ha dato voce a tutta la protesta della sua razza.
Qual è il mio ghetto, la mia razza che fino ad oggi ho tradita, ho dimenticata e per la quale non mi sento orgoglioso?
Faccio parte di una fetta della grande popolazione degli emarginati, quella degli handicappati, degli svantaggiati spastici, anche se fino ad ora non me ne sono accorto o facevo finta; il mio ghetto è dappertutto: dalle soffitte sottoproletarie alle case degli operai, dai ricoveri criminali alle gabbie d’oro degli istituti modello, dalle scuole speciali alle differenziali, ai laboratori protetti.
È una razza anche quella alla quale appartengo: una razza segnata da secoli, e da secoli tenuta lontano dalla cultura,dalla politica, dal lavoro, dall’affetto, dal sesso.
È una razza che ha un suo odore, come l’odore del negro, e che non riconoscevo più e che mi dava persino fastidio tanto mi ero allontanato da loro, dagli spastici, tanto mi ero integrato ai normali.
Ho provato fastidio ad entrare nei loro ghetti, nei loro istituti e sentire l’odore delle loro membra nervose; mi davano fastidio i loro gesti scomposti, le loro voci stentate.
Così li ho evitati per anni come evitavo di passare davanti allo specchio della via per non vedermi o rifiutavo di sentire la mia voce incisa da un magnetofono.
A questo punto la scelta.
Non conta niente gridare mea culpa, tanto meno tuffarsi nel ghetto per riammalarsi con tutti loro, per espiare con loro le colpe degli altri.
Occorre piuttosto organizzare la nostra speranza, recuperare tutto il nostro linguaggio avvilito, irrobustendo la nostra coscienza di esclusi, di emarginati, di sfruttati, ampliando la nostra protesta contro chi usa il nostro svantaggio come quello degli altri, contro chi ci detta la morale dell’obbedienza col pretesto che non sappiamo gestirci il nostro spazio di vita.
Occorre crescere e far crescere insieme con gli altri sfruttati, legare la nostra causa alla lotta comune delle classi sottomesse, occorre rivendicare il nostro spazio, la nostra creatività, il nostro diritto di vivere; così non si parlerà di odore di negro e di odore di spastico, ma sentiremo in tanti l’odore di classe».
*Da “La speranza handicappata”, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1974.