Ci piace immaginare una convivenza civile in cui le persone con disabilità possano realmente contare sulla loro inclusione, dignità, libertà anche in assenza delle famiglie di origine. Ci piace immaginare che i loro genitori, le loro sorelle o fratelli possano garantirsi la serenità di non essere angosciosamente vitali per la sopravvivenza stessa del loro congiunto. Ci piace vagheggiare la possibilità per ognuno di poter crescere, maturare, sviluppare capacità staccandosi – nel modo più naturale – dai genitori e costruendo un proprio progetto di vita il più indipendente possibile.
Vogliamo credere che possa esistere una società senza istituzioni totali, senza pseudocomunità, senza residenze nelle quali le persone siano coattivamente confinate, quand’anche con un loro apparente avallo. Incrollabilmente dobbiamo ritenere che sia diritto di ognuno scegliere dove vivere, come vivere e con chi vivere.
Utopie? Sogni? No, piuttosto sfide culturali, politiche, organizzative, che qualcuno ha già raccolto e vinto, restando tuttavia annoverato fra le buone quanto irriproducibili e disperatissime prassi.
Sfide che richiedono una visione a tutto tondo che investa le politiche, i servizi, le persone e le famiglie, riportando quelle istanze e quelle aspirazioni al centro, anche a costo di scontentare chi sulla servizievole coercizione della disabilità e della non autosufficienza ha fatto un business o ne intravede nuovi e floridi mercati.
Ci aspettavamo – a posteriori ingenuamente – qualcosa di simile dalla norma sul “dopo di noi” che in queste ore arriva in Aula della Camera dopo essere stata approvata dalla Commissione Affari Sociali. Un testo unificato di ben sei diversi Progetti di Legge.
A ben vedere la stessa necessità di una norma sul “dopo di noi” è di per sé la dimostrazione del fallimento di un welfare già povero di idee e sempre più fragile nelle soluzioni. La definizione stessa “dopo di noi” ha origine infatti dalla disperazione – che ha prodotto e continua a produrre “morti bianche”, isolamento, segregazione – di centinaia di genitori, spesso anziani, che non osano immaginare la sorte dei loro figli. Che assommano l’umano timore della morte alla disumana ansia di ciò che di più caro hanno al mondo.
Già il fatto che esista questo motivatissimo terrore rappresenta un fallimento, una lacuna, dimostra colpe senza rei perseguibili. Ma non è una tragica fatalità: è un canovaccio già scritto.
Siamo fra quelli che ritengono che queste famiglie non abbiano bisogno di sedativi o pacche sulle spalle e nemmanco di supporto psicologico perché “disturbati” dallo stress, ma di risposte credibili e concrete. Palpabili e senza proroghe.
Ma crediamo anche che per le generazioni di oggi e di domani non si debba più presentare uno scenario come quello attuale.
Ebbene, nel testo che arriva alla Camera di questo troviamo ben poco. La visione di uno scenario radicalmente diverso è frustrata. Manca così tanto, da generare sospetti, retropensieri, dubbi, tanti dubbi. Magari infondati o forse no.
È una norma che già nasce come “ultrasettoriale” e che non arriva nemmeno a ipotizzare che quell’isolamento e quel rischio di abbandono delle persone debbano trovare risposta in una serie articolata di servizi e di supporti, non certo costruendo nuove residenze, magari umanizzate, ma pur sempre lontane da progetti di vita davvero inclusivi.
È uno schema che porta a limitare l’urgenza della “presa in carico” ai soli disabili gravi, ostinatamente ignorando che esiste un identico, e in taluni casi addirittura maggiore, rischio di esclusione, anche in casi di limitazioni funzionali più lievi o financo borderline.
Incuriosisce, e inquieta, lo specifico Fondo e il suo uso futuro: servirà a costruire altre residenze, altri muri o sarà usato per aprire porte, per svellere recinzioni, per liberare dalla segregazione le centinaia di migliaia di persone che vivono ancora oggi in Italia in istituto (comunque esso venga denominato dalle legislazioni regionali)?
Già, perché se un’affermazione è certa, è che la nuova norma – di cui il Senato darà una seconda e verosimilmente ultima lettura – non pone un punto fermo e ineludibile che imponga sia la deistituzionalizzazione delle persone con disabilità oggi rinchiuse in residenze segreganti, né, tanto meno, criteri per evitare di far sorgere – magari “riverniciandole” – situazioni analoghe. Troppo deboli appaiono le indicazioni di principio: in pratica un’applicazione in scala ridotta e annacquata delle indicazioni della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
Altrettanto fragili sono poi le convinzioni che la capacitazione, il rafforzamento dell’autonomia personale, la realizzazione della vita indipendente debbano essere concretamente perseguite, non solo e tanto immettendo risorse nel sistema, ma con un profondo ripensamento dei servizi e dei sostegni che pongano al centro la persona, non come “soggetto a prendere in carico” o come “carname da RSA” [Residenza Sanitaria Assistenziale, N.d.R.], ma piuttosto come latore di risorse, pur residue, da potenziare, esaltare, usare.
Si prosegue a non comprendere che, trasformando la spesa in investimento, avremmo meno famiglie disperate e meno metri cubi di residenze più o meno protette. A chi giovi lasciamo al Lettore ogni considerazione.
Nemmeno sfiora la riflessione del Legislatore la considerazione che misure per il “dopo di noi” debbano essere intrinsecamente contigue ad altri interventi: dal sostegno alla vita indipendente, al supporto alla genitorialità e ai caregiver familiari e addirittura al contrasto all’impoverimento.
In questa logica il “dopo di noi” diventerà un capitolo di spesa, un Fondo. L’ennesimo Fondo, con un ennesimo decreto di riparto e con ennesimi interventi regionali più o meno diversi, più o meno scombiccherati. Solo in futuro vi saranno dei Livelli essenziali di prestazioni la cui definizione già ci fa rabbrividire al pari della loro effettiva esigibilità.
Ma la visione che manca rispetto a politiche complessive è invece molto lucida sul trust, trovata di origine anglosassone che consente di spossessarsi (con agevolazioni fiscali) di patrimoni propri in funzione di un vantaggio o beneficio futuro. Parte dei propri beni – solitamente patrimoniali – vengono affidati a un garante terzo (fondazione, finanziaria o quel che sia) e questi garantisce in un domani una rendita o un servizio a un beneficiario indicato dal sottoscrittore. Con delle garanzie, bene inteso.
In una diffusa situazione di povertà – assoluta o relativa – è evidente che il trust (centrale nella proposta di legge) non è certo una soluzione per tutti. Alcune lingue malevole finiscono allora per sostenere che questa operazione sia pensata più per le finanziarie che per le persone con disabilità, ma che per queste ultime siano previste agevolazioni fiscali aggiuntive è innegabile.
Ciò che lascia molto perplessi, in questo caso, è come una proposta così solerte nell’accogliere e potenziare il forestiero strumento del trust, non abbia voluto rafforzare altri istituti civilistici (ad esempio la donazione modale, la sostituzione fedecommissaria ecc.) già esistenti e meno forieri di interessi indiretti o di elusioni.
Conclusione: quelli di noi che confidavano in un’imminente “Legge 180” sulle istituzioni per disabili o che speravano nell’avvento di politiche integrate e inclusive devono rinviare il loro appuntamento con la storia. Sine die.