Da quando la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e la FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali di Persone con Disabilità) hanno ottenuto che venisse presentata alla Camera nel 2013 la Proposta di Legge n. 2444, aggiornata sino ad oggi, è partito un vero e proprio fuoco di artiglieria su due punti caratterizzanti la Proposta stessa, rispetto al miglioramento della funzione del docente di sostegno: la nuova e più approfondita loro formazione iniziale e le loro nuove carriere separate. Mi permetto qui di verificare quanto queste critiche siano superabili.
Innanzitutto siamo stati accusati di voler formare non dei docenti per il sostegno, ma semplici “assistenti sanitari o riabilitativi”, solo perché abbiamo preteso che nei nuovi corsi di specializzazione si introducessero discipline pedagogiche, psicologiche e didattiche tendenti a consentire ai nuovi docenti per il sostegno di saper comprendere i bisogni educativi derivanti dalle diverse tipologie di disabilità, mettendosi in grado di approntare strategie didattiche idonee a rispondere esaurientemente a tali bisogni.
Questa più completa formazione esisteva già a partire dagli Anni Ottanta e sino alla fine degli Anni Novanta, nei corsi di specializzazione monovalenti e poi polivalenti, che però si occupavano seriamente solo di due disabilità, la minorazione visiva e quella uditiva. Negli Anni Duemila, invece, la specializzazione polivalente è stata ridotta di ore di formazione e sono scomparsi gli approfondimenti su queste due problematiche, mentre altre ne crescevano nelle scuole, quali i bisogni educativi speciali per alunni con disabilità intellettive gravi, con sindrome di Down e con autismo.
La nostra Proposta riguarda un approfondimento nella formazione iniziale e obbligatoria in servizio relativa ai bisogni e alle strategie didattiche – non sanitarie, né riabilitative – di questi alunni.
Ora, contro queste critiche ingenerose, viene in nostro soccorso la recente pubblicazione intitolata Didattica speciale per l’inclusione (Editrice La Scuola, 2015), nel cui primo saggio il professor Luigi D’Alonzo scrive così: «Concordiamo con Mastropieri e Scruggs quando identificano cinque aree di funzionamento personale che inibiscono le performance di questi soggetti in classe [alunni con disabilità, N.d.R.] in compiti di apprendimento: l’area del linguaggio, l’area cognitiva, dell’attenzione e della memoria, del comportamento sociale, l’area fisica e delle funzioni sensoriali. Conoscere le oggettive difficoltà in queste aree consente un’azione didattica speciale inclusiva capace di supportare i deficit degli allievi. Occorre pertanto ricordare che, se si desidera lavorare bene sul piano inclusivo, ogni allievo è una persona e ogni tecnica che mette in campo deve essere attentamente considerata e scelta in base alle necessità personali di ogni allievo».
Ebbene, credo che questa affermazione faccia giustizia di tutte le critiche mosse alle nostre proposte. Anzi neutralizza la critica contenuta in quello stesso libro, nel successivo saggio del professor Fabio Bocci, intitolato polemicamente Dalla didattica speciale per l’inclusione alla didattica inclusiva, in cui egli sostiene che le nostre posizioni – e quindi anche l’affermazione di D’Alonzo sopra riportata – sono errate, poiché si limitano a concentrarsi sui singoli alunni più che sulla loro inclusione nella classe, tramite il Mastery Learning e il Cooperative Learning [rispettivamente una metodologia che permette agli studenti di assumersi la responsabilità del proprio apprendimento e un’altra metodologia attraverso la quale gli studenti apprendono in piccoli gruppi, aiutandosi reciprocamente e sentendosi corresponsabili del reciproco percorso, N.d.R.].
Noi concordiamo con l’importanza delle due metodologie indicate dal professor Bocci, ma purché siano precedute o accompagnate dall’attenzione ai bisogni educativi dei singoli alunni derivanti dalle loro differenti disabilità.
Il professor D’Alonzo ha dedicato tutta la propria vita accademica allo studio sul campo del lavoro inclusivo in classe e quindi siamo sicuri che rifacendoci alla sua citata affermazione andiamo sul sicuro, mentre le affermazioni del professor Bocci ci paiono più ideologiche e astratte che comprovate dall’esperienza sul campo.
L’altra contestazione riguarda la creazione di ruoli separati per il sostegno da una parte e per l’insegnamento curricolare dall’altra. Su quest’ultimo, in base alla nostra Proposta, i docenti specializzati nel sostegno potrebbero transitare solo per “passaggio di cattedra”, ove ne avessero i requisiti, cioè l’abilitazione per le singole discipline di insegnamento.
In questo caso ci si accusa di voler essere degli “innovatori stravaganti”, separando le due carriere, attualmente sovrapposte, ciò che riteniamo provochi una grave discontinuità nelle attività di sostegno agli alunni con disabilità, a causa del continuo passaggio da una cattedra all’altra, non permettendo così una vera scelta professionale all’inizio degli studi universitari.
Invero, se torniamo indietro di oltre una ventina d’anni e andiamo a leggere l’articolo 14 della Legge 104/92, la Legge Quadro sui Diritti delle Persone con Disabilità, troviamo che dal secondo al quinto comma si prevede l’istituzione di apposite “abilitazioni al sostegno”, ovvero proprio di ciò che si configura come l’anticamera dei ruoli separati per il sostegno, rispetto alle cattedre curricolari.
In conclusione, e senza voler ulteriormente approfondire quanto da tempo si dice sulle nostre due principali proposte, ritengo ci siano elementi per riflettere sulle critiche rivolteci e sulle proposte intermedie avanzate da altri, come le cosiddette “cattedre bis-valenti” o la specializzazione di sostegno a tappeto di tutti i circa 800.000 docenti curricolari.