Alla fine di gennaio è stato presentato da parte di alcune Associazioni di tutela delle persone con disabilità un ricorso alla Commissione Europea contro il Decreto Legislativo 151/15, che ha modificato alcuni articoli della Legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili) [se ne legga anche nel nostro giornale, con il riferimento alle Associazioni che hanno presentato quel ricorso e a quelle che invece si erano espresse in modo diverso sulla norma citata, N.d.R.]. Vorrei inserirmi anch’io nel dibattito già in corso con alcune riflessioni.
Io mi occupo nella città di Torino di tutelare il diritto al lavoro delle persone con disabilità intellettiva (ma con capacità lavorative, ancorché ridotte), che sappiamo tutti essere le più deboli sul mercato del lavoro: ancora troppe resistenze e troppa ignoranza ci sono sulle loro capacità lavorative ed io, nel mio piccolo, cerco di contribuire con ogni mezzo possibile a scardinare questi stereotipi e a convincere che anche per queste persone il lavoro è possibile.
Uno degli articoli contestati del Decreto Legislativo 151/15 riguarda la chiamata nominativa generalizzata per tutte le assunzioni, mentre la precedente Legge 68/99 manteneva una quota di assunzioni numeriche, retaggio della vecchia Legge 482/68, con la quale alle aziende in obbligo di assunzione venivano inviate dai Centri per l’Impiego persone disabili in base a una graduatoria.
Secondo le Associazioni ricorrenti alla Commissione Europea, questa nuova norma lederebbe il diritto al lavoro delle persone con disabilità più complesse, come le persone con disabilità intellettiva (sindrome di Down o altri handicap intellettivi). Io non sono d’accordo e vorrei spiegare il perché.
La Legge 68/99 ha avuto il merito di introdurre quello che è chiamato il collocamento mirato e cioè inserire al lavoro “la persona giusta al posto giusto”, per salvaguardare da un lato la giusta necessità delle aziende di avere persone in grado di svolgere i compiti loro assegnati, e dall’altro l’aspirazione delle persone con disabilità ad avere un lavoro di qualità, che le faccia sentire ben integrate e non assunte solo per assolvere un obbligo e poi emarginate a fare cose magari inutili.
Questo è ancora più necessario nel caso delle persone più difficili da collocare, come ad esempio quelle con disabilità intellettiva o psichiatrica o con pluriminorazioni, le quali non possono essere sbattute nel primo posto di lavoro che capita, perché l’inserimento non sarebbe certo di qualità e forse non durerebbe nemmeno quindici giorni.
Io credo invece che per loro sia fondamentale poterle inserire al lavoro utilizzando l’articolo 11 della Legge 68/99, che prevede tutta una serie di strumenti formativi e di accompagnamento al lavoro, senza i quali le persone più fragili non riuscirebbero ad essere inserite nel modo più corretto.
Da quando è uscita la Legge 68/99 – almeno a Torino e nella Provincia dove io vivo – sono state assunte centinaia di persone con disabilità intellettiva, per svolgere mansioni più o meno complesse, ma comunque utili all’azienda che le ha assunte e a se stesse e tutte sono state avviate attraverso convenzioni di integrazione lavorativa con chiamata nominativa e progetti ad hoc.
Gli inevitabili problemi che sono emersi, in molti casi sono stati risolti perché l’azienda non è stata lasciata sola ad affrontare problematiche che con un minimo di buona volontà e con l’aiuto di personale specializzato si sono risolte al meglio.
Tutto questo non sarebbe stato possibile, se per loro non si fosse messo in moto il meccanismo delle convenzioni ex articolo 11 della Legge 68/99, con progetti mirati e avviamento nominativo.
Secondo la mia esperienza, posso dire con certezza che quasi nessuna delle persone con disabilità complesse avviate con chiamata numerica è mai riuscita a superare i colloqui di selezione nelle aziende profit o le prove attitudinali che gli enti pubblici richiedono e quindi vengono scartate a favore di quelli che io chiamo i “disabili perfettamente abili”.
Non sarebbe meglio fare in modo che le aziende e soprattutto gli enti pubblici che devono assumere personale disabile riservassero una quota di assunzioni proprio a queste persone, in modo che non venissero sempre penalizzate al confronto con persone di altre tipologie di disabilità oggettivamente “più abili”? Non hanno forse anche le persone con disabilità intellettiva gli stessi diritti ad avere un lavoro, ovviamente se ne hanno le capacità, ancorché ridotte?
I progetti di collocamento mirato servono proprio a questo scopo: preparare le persone che hanno potenzialità lavorative ad implementarle, attivare progetti di tutoraggio che accompagnino la fase iniziale dell’inserimento, preparare il terreno ad un inserimento di qualità, coinvolgendo anche i colleghi di lavoro, prevedere interventi di monitoraggio del dopo assunzione.
Solo in questo modo, a mio avviso, anche le persone con disabilità intellettiva potranno sperare di essere inserite a lavorare in ambienti normali (non protetti, come troppo spesso succede ora) e svolgere il proprio lavoro con piena soddisfazione di tutti.
È ovvio che si tratta di percorsi più complessi e più costosi che non il semplice invio attraverso la chiamata numerica: presuppongono, infatti, tutta una serie di servizi che la Legge 68/99 prevede, ma che non sempre le singole Amministrazioni preposte al collocamento mettono in atto, forse perché a nessuno importa molto che queste persone possano avere una vita piena e ben integrata nella società. Meglio prevedere per tutti percorsi assistenziali, anche se alla lunga costano alla società molto di più che un accompagnamento corretto al lavoro. I percorsi assistenziali – assolutamente indispensabili – dovrebbero essere appannaggio solo di chi capacità lavorative proprio non ne ha.
Questo dobbiamo chiedere a gran voce noi Associazioni che ci occupiamo del benessere e del diritto al lavoro delle persone con disabilità intellettiva e non pretendere solo avviamenti numerici che non salvaguardano né il diritto al lavoro né il benessere delle persone che tuteliamo.