In Italia c’è ancora tanta gente convinta che alcune forme di disabilità debbano essere trattate in appositi ambienti altamente strutturati e con personale professionalmente preparato. Questo convincimento parte da due concetti, molto antiquati: il primo “ufficiale” e il secondo “ufficioso”.
Il concetto ufficiale riguarda il convincimento che chi è affetto da una disabilità grave sia in forte disagio tra persone “normali” e quindi è un bene che possa vivere in un ambiente educativo e tra persone a lui simili.
Andiamo ad analizzare questo assunto. Alcune forme di disabilità intellettiva hanno, in effetti, differenti modalità di relazione con le persone e con le cose. Modalità spesso bizzarre e che appaiono, anche a uno sguardo molto smaliziato, sicuramente strane.
Frequentemente – soprattutto in contesti dove non si attivano precocemente dei percorsi educativi individualizzati (e sottolineo individualizzati, ovvero conformati perfettamente alla persona con disabilità) – queste stranezze si stabilizzano, fino a diventare stereotipate e apparentemente ingestibili. Quindi, per meglio “gestirle”, si raggruppano persone “strane” insieme ad altre persone “strane”, inserendole in ambienti chiusi e con regole particolarmente rigide per “rieducarli”.
Ma rieducarli a cosa? Al poter tornare a vivere in mezzo alla gente “normale”? Sappiamo molto bene tutti che questo non avverrà mai, che queste persone “strane” non torneranno mai più tra le persone “normali”. Nessuna di queste persone istituzionalizzate ha avuto un progetto a breve termine che culminasse con il ritorno a casa. Tanto più lo si prevede nella futura Legge sul cosiddetto “Dopo di Noi”, approvata alla Camera e in discussione in Senato. Quindi la “rieducazione” di questi luoghi è una menzogna.
Qualcuno obietterà che tra i propri “simili” queste persone hanno meno disagio. Ma sul serio c’è gente che crede che una grave forma di disabilità possa essere simile a un’altra grave forma di disabilità? Nemmeno i gemelli monozigoti, quando prendono la medesima malattia, stanno male alla stessa maniera, e questo perché scientificamente non esiste una persona uguale all’altra.
Quindi, quando parliamo di “similitudine”, facciamo lo stesso ragionamento di chi pensa che gli orientali si somiglino tutti perché hanno tutti gli occhi a mandorla. Ci fermiamo, cioè, a qualche caratteristica molto apparente e la generalizziamo a tutto l’Oriente. Poi, però, basta vivere per qualche mese in Oriente, per scoprire che ogni orientale è diverso, che con alcuni si può arrivare ad avere un feeling che nemmeno con il proprio fratello o migliore amico… con altri meno, altri proprio non li si sopporta! Insomma, che in realtà, in fin dei conti, gli orientali sono uomini, donne e bambini come noi. Uguali a noi.
E siamo arrivati al motivo “ufficioso” per cui preferiamo chiudere persone con certe disabilità in “strutture protette”. Perché viverci insieme comporta un adattamento di tutti che non si ha voglia di compiere. E quindi, siamo noi che ci proteggiamo dalla loro “strana presenza”, che mette in discussione – fino ad arrivare a rivoluzionarla – quell’esistenza e quella quotidianità alla quale siamo abituati. Ciò che in psicologia viene indicata come comfort zone e che, ironia della sorte, blocca l’evoluzione di chiunque.