Il mondo della disabilità in Italia ha bisogno di determinazione, idee chiare, realismo. Molto meno di visceralità, luoghi comuni e ideologia. Eppure, e non è strano, prevalgono di gran lunga i secondi. Così, siamo passati in pochi decenni dal segregazionismo all’inclusivismo totalitario.
Leggo quindi con irritazione, ma non con stupore, l’articolo di Chiara Bonanno comparso il 16 febbraio in «Superando.it», intitolato “Strutture protette”: i convincimenti e le leggende. E qui lo sottopongo ad un’analisi critica, al fine di far emergere quelli che a mio giudizio sono nodi irrisolti e scogli pericolosi (non privi di “Sirene”).
Scrive Chiara Bonanno: «In Italia c’è ancora tanta gente convinta che alcune forme di disabilità debbano essere trattate in appositi ambienti altamente strutturati e con personale professionalmente preparato». Certamente, e per fortuna. Quegli ambienti, però, non è facile trovarli. Io da sempre sostengo che le persone con autismo “a basso funzionamento”, tanto per non parlare genericamente, debbano essere trattate in appositi ambienti altamente strutturati e da personale esperto, formato sull’autismo e in grado di utilizzare le tecniche cognitivo-comportamentali che la scienza ha validato.
Scrive poi Bonanno: «Questo convincimento parte da due concetti, molto antiquati: il primo “ufficiale” e il secondo “ufficioso”. Il concetto ufficiale riguarda il convincimento che chi è affetto da una disabilità grave sia in forte disagio tra persone “normali” e quindi è un bene che possa vivere in un ambiente educativo e tra persone a lui simili».
Questo «concetto ufficiale» è esposto male e travisato. Intanto, non esiste come ufficiale, nemmeno tra virgolette. Secondariamente, non è questione, per quel che riguarda l’autismo grave, di un disagio in ambiente normale. È questione di una serie di problematiche, molto varie e complesse, anche sensoriali, che affliggono gli autistici. Ad esempio, chi in Italia – Paese così orgoglioso della sua inclusione scolastica – si pone mai il problema della sofferenza degli allievi autistici sotto le luci al neon di cui tutte le aule sono dotate, luci che causano disturbi visivi a moltissimi di loro? Dirò di più: ci sono anche centri per l’autismo in cui l’illuminazione è al neon, mentre è un dato scientifico acquisito che per buona parte dei soggetti autistici essa è fastidiosissima.
L’autismo non consente a chi ne è affetto di essere come gli altri in tutto e per tutto, e ritenere che un autistico possa e debba fare tutto quello che fanno i suoi compagni “neurotipici”, ad esempio andare in luoghi caotici e rumorosi come una discoteca, significa non accettare la differenza, violentare la natura della persona, sotto il manto ideologico dell’uguaglianza ad ogni costo. Con l’autismo il costo di questa ideologia è pesantissimo.
Prosegue Chiara Bonanno: «Andiamo ad analizzare questo assunto. Alcune forme di disabilità intellettiva hanno, in effetti, differenti modalità di relazione con le persone e con le cose. Modalità spesso bizzarre e che appaiono, anche a uno sguardo molto smaliziato, sicuramente strane. Frequentemente – soprattutto in contesti dove non si attivano precocemente dei percorsi educativi individualizzati (e sottolineo individualizzati, ovvero conformati perfettamente alla persona con disabilità) – queste stranezze si stabilizzano, fino a diventare stereotipate e apparentemente ingestibili. Quindi, per meglio “gestirle”, si raggruppano persone “strane” insieme ad altre persone “strane”, inserendole in ambienti chiusi e con regole particolarmente rigide per “rieducarli”».
Se è ben vero che l’autismo deve essere affrontato con un trattamento precoce e intensivo (e questo già di per sé pone una differenza rispetto agli altri bambini, nevvero?), bisogna tener presente che molti casi registreranno miglioramenti solo molto limitati, pur con tutti i trattamenti del mondo. Io stesso ne ho fatto esperienza con mio figlio Guido. Il problema è anche quello del ritardo mentale associato all’autismo, che tanto più è grave tanto più limita i progressi.
Mio figlio, che è del tutto averbale, avrà bisogno per tutta la sua vita di ambienti protetti e strutturati. Quello di rieducazione, poi, è un termine del tutto fuori luogo, un termine da struttura carceraria. Nel mondo della disabilità mentale e dell’autismo si parla di educazione speciale, caso mai, ma soprattutto di abilitazione. Ma l’abilitazione può avere successo parziale, limitato, o nessun successo.
Si chiede quindi Bonanno: «Ma rieducarli a cosa? Al poter tornare a vivere in mezzo alla gente “normale”? Sappiamo molto bene tutti che questo non avverrà mai, che queste persone “strane” non torneranno mai più tra le persone “normali”. Nessuna di queste persone istituzionalizzate ha avuto un progetto a breve termine che culminasse con il ritorno a casa. Tanto più lo si prevede nella futura Legge sul cosiddetto “Dopo di Noi”, approvata alla Camera e in discussione in Senato. Quindi la “rieducazione” di questi luoghi è una menzogna».
Posto che rieducazione non è la parola giusta, se il fine è il «ritorno tra la gente “normale”», occorre riconoscere che le persone con autismo grave e gravissimo non saranno mai in grado di vivere una vita simile a quella degli altri. Ad esempio, mio figlio Guido avrà sempre bisogno di essere vigilato attentamente, perché la sua iperattività, unita all’autismo e al ritardo mentale, lo rende potenzialmente pericoloso a sé e agli altri, totalmente privo del senso del pericolo ecc.
Lui, per vivere una vita non disumana, ha assoluta necessità di essere trattato in modo differente dagli altri. È questa la cosiddetta “discriminazione positiva”, quella che fa fatica ad entrare nella mente dei responsabili della sanità, dell’educazione e dei servizi sociali. Ma – come è evidente – anche nella mente di molti genitori e di molti di coloro che lavorano per i disabili. Quella discriminazione positiva per cui, ad esempio, negli ospedali un autistico non dovrebbe essere trattato come gli altri, perché ha problemi sensoriali che gli altri non hanno, non è in grado di aspettare il suo turno, o è infastidito da particolari dell’ambiente per noi insignificanti, perché è “socialmente cieco”, non comprende il significato dei gesti e i segni in contesti mutevoli, soggetti a modificazioni continue.
Prosegue Chiara Bonanno: «Qualcuno obietterà che tra i propri “simili” queste persone hanno meno disagio. Ma sul serio c’è gente che crede che una grave forma di disabilità possa essere simile a un’altra grave forma di disabilità? Nemmeno i gemelli monozigoti, quando prendono la medesima malattia, stanno male alla stessa maniera, e questo perché scientificamente non esiste una persona uguale all’altra».
Che nessuna persona sia uguale ad un’altra, prima che una nozione scientifica (per altro “persona” non è termine scientifico, propriamente) è esperienza e senso comune. Ma qui si fa una grande confusione, e il discorso va fuori strada. Cerchiamo di stabilizzare i concetti.
È del tutto ovvio che tra le gravi forme di disabilità esistano differenze abissali. Un non vedente sperimenta una grave forma di disabilità, e nella sua vita incontra molte difficoltà, ma può vivere, con una serie di ausili e accorgimenti, una vita pienamente soddisfacente, autonoma, ricca di relazioni e socialità. Un autistico grave come Guido non sarà mai autonomo, e non si renderà nemmeno conto della natura dei suoi problemi, a causa della sua disabilità mentale, della sua incapacità di maneggiare i concetti, anche quelli più semplici. Anzitutto, la differenza si pone tra le disabilità fisiche e quelle psichiche. E nell’àmbito di queste ultime ci sarà, tanto per dirne una, una bella differenza tra una persona con sindrome di Down altamente socializzata, che fa sport di squadra ecc., e uno come Guido, che ha dovuto smettere di frequentare piscina e basket per la sua totale incapacità di adattarsi alle richieste dell’ambiente, per la sua tendenza a scappare mettendosi in pericolo, per la mancanza di strutture sportive adatte a persone come lui ecc. (E parliamo di un ragazzo diagnosticato correttamente all’età di 2 anni e mezzo, e sottoposto a educazione cognitivo-comportamentale da sùbito, e ben integrato nel percorso scolastico dall’asilo alle superiori).
Ma all’interno di una data forma di disabilità, se le singole persone presentano tra loro differenze anche molto significative, vi sono delle caratteristiche comuni. Altrimenti una disabilità sarebbe uguale ad un’altra, e dunque un down e un autistico sarebbero la stessa cosa, notte in cui “tutte le vacche sono nere”, il che evidentemente non è.
E aggiunge ancora Bonanno: «Quindi, quando parliamo di “similitudine”, facciamo lo stesso ragionamento di chi pensa che gli orientali si somiglino tutti perché hanno tutti gli occhi a mandorla. Ci fermiamo, cioè, a qualche caratteristica molto apparente e la generalizziamo a tutto l’Oriente. Poi, però, basta vivere per qualche mese in Oriente, per scoprire che ogni orientale è diverso, che con alcuni si può arrivare ad avere un feeling che nemmeno con il proprio fratello o migliore amico… con altri meno, altri proprio non li si sopporta! Insomma, che in realtà, in fin dei conti, gli orientali sono uomini, donne e bambini come noi. Uguali a noi».
Qui il ragionamento continua sulla stessa linea, manifestando tutta la sua fallacia. Un conto, infatti, è concludere che ogni orientale (ma anche gli indiani sono orientali, e non hanno gli occhi a mandorla, quindi anche fisicamente gli orientali sono diversi tra loro) è diverso dall’altro, che il singolo individuo è quello che è, un individuo, in Cina come da noi. Ma negare la differenza tra cultura e modo di vivere italiano e afghano o cinese, significa anzitutto negare la realtà, secondariamente offendere quelle civiltà e quelle persone. Un cinese, infatti, e un indiano, sono formati dalla società in cui vivono, dalla lingua che parlano, dalle usanze, in altri termini dalla loro cultura. Siamo tutti umani, ma nell’àmbito della comune umanità, una donna è diversa da un uomo, una donna cinese da una donna indiana o europea. Non si può dire a un cinese: «Tu sei un essere umano e basta, non sei un cinese!». Sarebbe esercitare una violenza. Le differenze non vanno negate, ma accolte come tali, rispettate e valorizzate. Così gli autistici ad altissimo funzionamento che rivendicano il loro diritto ad essere autistici, a vedersi riconosciuti come tali, neurodiversi, hanno a modo loro ragione. E quelli averbali, che non possono rivendicare nulla, debbono però essere da noi accolti e rispettati nella loro differenza. Non si deve cercare di renderli uguali in tutto a noi: se a loro non è possibile adattarsi all’ambiente più di tanto, noi dobbiamo fornire loro ambienti accoglienti, adatti a loro, in cui possano vivere bene secondo le loro caratteristiche. Perché gli autistici non sono uguali a noi, e trattarli come se lo fossero significa far loro del male.
Conclusione di Bonanno: «E siamo arrivati al motivo “ufficioso” per cui preferiamo chiudere persone con certe disabilità in “strutture protette”. Perché viverci insieme comporta un adattamento di tutti che non si ha voglia di compiere. E quindi, siamo noi che ci proteggiamo dalla loro “strana presenza”, che mette in discussione – fino ad arrivare a rivoluzionarla – quell’esistenza e quella quotidianità alla quale siamo abituati. Ciò che in psicologia viene indicata come comfort zone e che, ironia della sorte, blocca l’evoluzione di chiunque».
E qui si giunge, infine, all’inevitabile colpevolizzazione, cui ogni discorso di questo tipo («nulla di speciale per i nostri figli, sono uguali agli altri, devono essere integrati e basta») necessariamente conduce.
Chi ha figli autistici gravi come il mio Guido adatta se stesso e la sua vita per anni, per decenni, alle caratteristiche e ai bisogni del figlio. Gli dedica un amore e un impegno immensi. Sapendo però bene che la condizione mentale del figlio lo renderà dipendente dalla cura degli altri per l’intero arco della vita. E che gli ambienti della vita sociale comune, a cominciare dalla scuola, possono adattarsi solo molto parzialmente ai suoi modi di essere e agire, facendo quotidianamente l’esperienza del fatto che proprio la mancanza di strutture sportive e ricreative pensate per gli autistici gravi come lui alla fine lo escludono dallo sport, da ogni divertimento, da ogni forma di socializzazione. Il problema ultimo è poi questo: chi si curerà di lui quando i genitori non ci saranno più? Magari esistessero strutture per quelli come lui, con personale preparato, con un sapere dell’autismo grave e delle sue necessità, un sapere che forse oggi troviamo solo in Cascina Rossago [“fattoria sociale” nell’Oltrepo Pavese, specificamente studiata per ospitare persone adulte con autismo, N.d.R.] e in qualche altra esperienza del genere.
Meno ideologia, più scienza e più realismo: questa è la mia richiesta. Ma non è il Paese giusto.