È uscito recentemente anche nei cinema italiani il film Goya – Visioni di carne e sangue, riaccendendo le luci su una grande mostra (Goya: The Portraits), conclusasi nel gennaio scorso alla National Gallery di Londra, dedicata proprio all’artista spagnolo e in particolare ai suoi ritratti.
Il film – diretto da David Bickerstaff, con il contributo di Xavier Bray, primo curatore dell’esposizione citata – allinea volti, busti e sguardi, tutte persone colte da Goya nelle diverse fasi della sua vita. Ci sono i committenti nobili (come la celebre Duchessa d’Alba) e gli amici. Le persone care, come il dottor Arrieta, co-protagonista del famoso ritratto che chiude la mostra (ripreso anche qui a fianco) quasi un congedo.
Ma perché è quasi un “congedo”, quella sorta di “Pietà” laica del 1820, con il medico che sorregge l’artista malato, devastato nel fisico, certo, ma anche nell’animo? Perché sta proprio qui il cuore della vita artistica di Francisco José de Goya y Lucientes (1746-1828), divisa in un prima e in un dopo. Prima della malattia e dopo la malattia. Prima di quella sordità che lo isolò lentamente dal mondo e dopo quel malessere che lo tormentò, ma che, al tempo stesso, guidò la sua mano in alcune delle sue opere più moderne, rivoluzionarie. Goya, infatti, intorno al 1792 si ammalò durante un soggiorno a Siviglia: acufeni, vertigini, disturbi alla vista. Il tutto si trasformerà in un’irrimediabile perdita dell’udito.
Molto si è discusso sulle cause di questa caduta: secondo alcuni, l’origine andrebbe ricercata nelle sostanze tossiche allora usate per trattare i colori, ricche di piombo (pare che anche il pavese Tranquillo Cremona, capofila della stagione della Scapigliatura pittorica milanese, sia stato stroncato nel 1878, a soli 41 anni, dal piombo delle biacche usate nei tinte). Secondo altri, la sua malattia sarebbe stata la conseguenza di una vita indubbiamente sregolata.
Fatto sta che alla fine la sordità lo avvolse in una nebbia popolata di incubi, mostri, verità che affioravano sulla tela. Come se avesse sviluppato un udito interiore capace di parlare solo attraverso il pennello.
Il Goya delle Pitture nere, per capirci, quelle raffigurazioni di scene stregonesche, mostruose, che realizzò sulle pareti della sua casa alla periferia di Madrid, con la restaurazione borbonica. Insomma, la sordità cambiò la sua sensibilità. E c’è un raffronto che lo racconta meglio di ogni parola: il dipinto Prateria di San Isidro [Sant’Isidoro, N.d.R.] del 1788 e il Pellegrinaggio a San Isidro del 1820-23. Stesso luogo, diverso spirito: la delicatezza naturalistica del luogo che è nella prima opera si scontra con la cupezza con cui, anni dopo, raffigura la stessa collina.
Dunque, se le cause della malattia di Goya sono incerte, quel che è sicuro è che la sua pittura si modificò radicalmente. Fino a un epilogo “da film giallo”: il suo cadavere attualmente riposa a Bordeaux senza il cranio. La sua testa, quella testa che fu capace di generare i più sconvolgenti incubi della modernità, è stata asportata. Da chi? E perché? Questa, però, è un’altra storia. Un altro mistero.