Ho letto con un certo sconcerto, in «Superando.it», l’analisi che il signor Fabio Brotto ha fatto del mio scritto dedicato alle cosiddette “strutture protette”, precedentemente pubblicato da questa stessa testata.
La cosa che mi ha colpito di più è stato proprio il fatto che mi si rimprovera di essere andata troppo al nocciolo della questione, senza indugiare in dettagli tecnico-operativi. Un rimprovero che non coglie, di fatto, proprio il motivo per cui ho volutamente scelto una modalità espressiva nuda e cruda, che aveva l’obiettivo di smascherare tutte quelle giustificazioni o “leggende” nate intorno al bisogno di allontanare la vita dei “diversi” dalla vita dei cosiddetti “normali”.
Il signor Brotto afferma che la mia posizione sia puramente ideologica e qui sbaglia: e molto anche.
Ho al mio attivo più di trent’anni di lavoro professionale con le disabilità molto gravi a… “basso funzionamento” (questa è una di quelle definizioni che ho volutamente evitato nel mio precedente scritto, perché, pur definendo abbastanza chiaramente una condizione, ne stigmatizzano l’immodificabilità con una valenza fortemente negativa).
Il mio lavoro professionale sul campo come assistente sociale è iniziato proprio con la deistituzionalizzazione psichiatrica ed è continuato attivamente nella costruzione operativa di quelle reti sociali e terapeutiche attivate nel tessuto relazionale di persone in condizioni patologiche e di disabilità molto, ma molto gravi.
Oltre all’esperienza professionale, ho, inoltre, un’esperienza diretta, più difficile e sofferta, di tipo personale, con mio figlio che è, appunto, una persona con una severa e plurima disabilità.
Ed è proprio attraverso questa mia esperienza diretta, e non professionale, che scelgo di rispondere al signor Brotto, perché dietro l’irritazione della sua replica ho immediatamente individuato, avendolo sperimentato io stessa, l’esigenza istintiva di proteggere dal mondo l’estrema fragilità di chi si ama.
Il punto è che proprio questo desiderio di protezione, così istintivo nei genitori, finisce per alimentare le condizioni di pericolo che espongono le persone più fragili agli abusi.
Se si immagina la società come una rete dove ogni individuo è rappresentato da un nodo di raccordo e congiunzione dei diversi fili, si può comprendere visivamente e immediatamente come più il nodo (l’individuo) diventa l’elemento di raccordo di molteplici fili, più la “rete” creata intorno a lui sarà robusta e di autentico sostegno.
Cosa succede invece a una famiglia, a dei genitori, quando l’estrema fragilità di un proprio congiunto innesca l’istinto di protezione? Si chiude, cominciando a eliminare intorno al nodo che rappresenta il proprio figlio tutti quei fili, quegli elementi relazionali, che ritiene inutili e/o dannosi.
Il signor Brotto afferma che questa forzata selezione è indispensabile, per attivare approcci educativi come quello cognitivo comportamentale. Conosco bene questo tipo di approccio educativo, che è seguito da mio figlio da anni, ma un conto è strutturare le variabili per attivare il problem solving [“risoluzione del problema”, N.d.R.], un altro è eliminarle come elementi di disturbo!
Così non si ottiene un percorso educativo dell’individuo di adattamento al contesto. Si elimina invece il contesto, fossilizzando l’individuo stesso nei suoi comportamenti-problema!
Il fatto è che il punto di vista “protettivo” è sempre un cattivo consigliere. Una rete si logora e finisce per strapparsi proprio dove i fili si intersecano in modo più rarefatto e monocolore: più una persona è fragile, più occorre aumentare a livelli eccezionali gli approcci relazionali e variegarli in modo che ciò che si percepisce sia una baraonda di colori. Occorre insomma “autorizzare” l’intero mondo circostante a… “impicciarsi” della persona con disabilità, fino a quando non verrà percepita come responsabilità di tutti.
E soprattutto mai raggrupparla con altri individui simili a lui prioritariamente nelle caratteristiche problematiche, perché qualsiasi problema raggruppato produce l’effetto di potenziare le criticità, ampliando a dismisura ogni spinta espulsiva.
E questo avviene naturalmente perché fa parte proprio dell’istinto di ogni essere umano proteggersi dai “raggruppamenti problema” che ne amplificano e sottolineano la diversità.