Ogni anno vado in cerca di sguardi da incrociare e di pensieri da condividere senza troppa fortuna. Una specie di senso di colpa, di voglia di non pesare, mi accompagna. E mi allontana dalle altre donne. Le sorellanze che ogni volta vorrei rinverdire, si son perse. Tendo a stare insieme alle donne per ragionare di noi, ma mi accorgo che sono sempre io a inseguire le altre e mai le altre ad accompagnare me.
So che le mie tensioni sono diverse; sento slegature e potenziali discordanze. E intimità inconsistenti.
Ho mancato le occasioni di lotta manifesta, ma mai ho tradito i valori. Ed è questa la mia lotta invisibile, il mio orgoglio di genere. Non farsi cambiare è una conquista. Amo questa giornata e la fresca tenerezza delle sue mimose, quelle che hanno solleticato il naso e fatto ridere ogni anno mio figlio autistico. Quelle che hanno alleggerito la maturità precoce di sua sorella.
Il mio 8 Marzo solitario è uguale a quello di tante altre madri, compagne, figlie o sorelle di persone con disabilità, o disabili esse stesse, che non possono accedere alle manifestazioni per via delle barriere, zero accessibilità come zero welfare.
Il mio 8 Marzo solitario è sconosciuto alle altre donne che lo immaginano solamente, che solidarizzano, che assicurano in assoluta buona fede una rappresentanza, ma che continuano ad andare altrove, non dove vado io.
Eppure, diceva Rosanna Benzi poco prima di morire (1991): «Credo che proprio dalle donne potrà venire un grosso contributo di saggezza, parlo anche di donne che sono su due ruote o sono chiuse in uno strano e buffo (almeno per me) scaldabagno [il polmone d’acciaio N.d.R.]».
Che le donne sostengano la causa della disabilità, è un desiderio che esprimo qui, oggi. Si consideri quante somiglianze ci sono tra le lotte di genere e quelle delle persone disabili: per l’autonomia che apre alla capacità di sostentarsi, invece di dipendere sempre da una qualche forma di assistenzialismo; per la correttezza del linguaggio che identifica le persone e non le loro disabilità (o diversità in generale), o che le stigmatizza se il linguaggio è scorretto e improprio. Per l’indipendenza, porta della libertà, e la responsabilità che ne deriva sul piano personale e su quello sociale.
Dai tempi di Rosanna Benzi il contesto è un po’ cambiato. In questo 2016 si sta assistendo ad un fiorire di interessi, almeno mediatici, sulla disabilità. È da menzionare il Gruppo delle Donne di Perugia che ha voluto includere le amiche sorde lavorando a lungo con loro per tradurre in Lingua Italiana dei Segni il testo della canzone Break the chain e trasformando i segni in danza per One Billion Rising [campagna internazionale avviata nel 2012, contro la violenza sulle donne, N.d.R.].
Ne è seguito un tutorial affascinante e un flash mob molto significativo che ha attirato l’attenzione sulla gravità della violenza sulle persone disabili, donne e anche uomini. Violenze fisiche o verbali e psicologiche, perfettamente sovrapponibili nel potere denigratorio, e quasi sempre domestiche, con l’aggravante che le vittime spesso dipendono fisicamente dal loro aguzzino. Una violenza in più, se si tratta di donne denigrate in quanto donne.
Tutto questo avrà un seguito o il flash mob sarà fine a se stesso? Quanta consapevolezza c’è di queste particolari sfaccettature della questione di genere? E quanto peso ha nella cultura civile di un popolo l’esperienza delle madri di donne e uomini disabili? Cosa ne è, nell’immaginario collettivo, di quella maternità artigianale, costruita su misura per una sola persona al mondo, ma che, paradossalmente, ha in sé il germe della inclusività? Perché sono tante le cose che una madre deve imparare a includere e a considerare patrimonio immediatamente fruibile, anche l’umiliazione dei punti di domanda e degli sguardi sfuggenti della società da cui spesso si impara come non si deve essere, ché nessuno nasce genitore e tutti si impara ad esserlo.
Nulla sa la società della laboriosità di queste madri e di questi figli; nulla sa della capacità di trovare soluzioni (dove passa un disabile, passano tutti), perché l’immaginario collettivo vuole disperate le madri e deboli i loro frutti. E insignificante, inutile, parassitario il mondo della disabilità. E colpevoli le madri che lo fanno crescere invece di abortirlo.
Vorrei che le donne aiutassero le donne, ne rispettassero i tempi lunghi e lenti, ne valorizzassero i talenti e scoprissero la speciale energia della maternità disabile, senza trasformare quelle madri in “creature mitiche” o in “cartoni animati dai mille poteri”.
E intanto inseguo il tempo che ho lasciato fuggire credendomi immortale, quando mi dicevo: «tanto a me, non mi ammazza nessuno». Inseguo il tempo che ho perso rigettando l’idea di essere la “donna bionica” che mi si vorrebbe in famiglia: l’eroina dalle mille fatiche e dalle mille virtù.
Faccio finta di non stupirmi quando mi guardo allo specchio e mi fa senso. Perché il tempo che passa e il delirio di onnipotenza che pure ha sostenuto i primi anni vissuti in compagnia della disabilità di mio figlio, lasciano i segni.
Ho lottato e ho perso i pezzi. E non posso più tornare indietro. Ma davanti mi si rivela il futuro: essenziale, lucido, mio.
E ora che sto contando il mio cinquantacinquesimo 8 Marzo, posso dire con lo stesso sollievo di Filumena Marturano: «…quant’è bello a chiàgnere».