«“Come mi vedi?”. Io mi vedo così: una figlia, una sorella, una migliore amica, una sulla quale puoi contare. Mi vedo incontrare chi poi condividerà con me la vita, cantare, ballare. E ridere. Fino a perdere il fiato. Perdere il fiato. Anche piangere, a volte. Mi vedo inseguire i sogni. Anche se sono impossibili. Specialmente perché sono impossibili. Insomma, mi vedo come una persona comune. Con una vita importante, piena, meravigliosa. Io mi vedo così. “E tu come mi vedi?”».
Cambiare la prospettiva: la Giornata Mondiale sulla Sindrome di Down del 21 marzo si è basata su una domanda voluta per mostrare quanto l’atteggiamento verso le persone cambi la società. E quella domanda fatta da AnnaRose, ragazza con sindrome di Down, davanti a uno specchio, mentre ripensa alla sua vita, mette in gioco noi, non lei. Siamo noi che guardiamo in modo sbagliato. Noi, per i quali chi è nato con la sindrome di Down cammina un passo indietro. Noi che non ci crediamo.
AnnaRose è una studentessa americana. Lavora part-time e gioca a basket con gli amici di Special Olympics [il movimento internazionale dello sport praticato dalle persone con disabilità intellettiva, N.d.R.]. Si racconta, giustamente, con quelle parole iniziali: una persona. Uguale e diversa ai miliardi che le stanno intorno. Con le sue emozioni, i suoi incontri, le sue gioie e le sue cadute, le sue abilità e i suoi sbagli.
AnnaRose è la protagonista dello splendido video intitolato How Do You See Me? (“Tu come mi vedi?”) [se ne legga già ampiamente nel nostro giornale, N.d.R.] con il quale il CoorDown (Coordinamento Nazionale Associazioni delle Persone con Sindrome di Down), insieme ad alcune organizzazioni di altri Paesi, ha voluto celebrare la Giornata Mondiale sulla Sindrome di Down, collaborando per il quinto anno consecutivo con la nota agenzia di pubblicità Saatchi & Saatchi.
Allo specchio di AnneRose appare Olivia Wilde, attrice statunitense. Non è lei che vuole diventare Olivia, siamo noi che dobbiamo cambiare il modo di guardare. Spiegano dal CoorDown: «Uno sguardo può essere amichevole, incoraggiante, rispettoso oppure freddo, sprezzante, discriminatorio. La piena inclusione delle persone con sindrome di Down passa anche dallo sguardo degli altri, dai pregiudizi della società e dalle possibilità che vengono loro offerte. Vivere una vita ricca di relazioni sociali soddisfacenti grazie al supporto della propria comunità, della famiglia, degli amici, dei colleghi di lavoro». È stato proprio questo il tema della Giornata del 21 marzo.
«Siamo cresciuti con la paura del diverso. Ci hanno insegnato che quello che era lontano da noi non ci riguardava. Abbiamo imparato che quello che non succede a me, non esiste. Ma si sono sbagliati, perché riguarda tutti!»: questo ha detto Martina Fuga, mamma di una ragazza con sindrome di Down e delegata alla comunicazione del CoorDown, presso la sede delle Nazioni Unite, dove è stato presentato How Do You See Me?.
Eliminare pregiudizi e riconoscere le abilità delle persone con sindrome di Down: cambiare lo sguardo è anche questo, in una società che sappia offrire possibilità di crescita a tutti. Scoprire così come tutti siano risorse. Per questo, vedere una ragazza come Nicole Orlando insieme ad attori e cantanti nello show del sabato sera di Raiuno [“Ballando con le stelle”, N.d.R.] è così importante: mostra le abilità, che appaiono straordinarie, ma solo perché il nostro sguardo, prima, non le sapeva cogliere.
Fondamentale perché il mondo cambia intorno a noi. Lo ha fotografato bene il Progetto Dosage, una ricerca sull’invecchiamento delle persone con Sindrome di Down presentata a Milano. Spiega Matilde Leonardi, neurologa all’Istituto Besta di Milano, coordinatrice di tale iniziativa: «In Italia ogni 1.200 neonati uno ha la sindrome di Down e al contrario di quanto accadeva sino a una ventina di anni fa, oggi le persone con sindrome di Down del nostro Paese invecchiano. Mentre infatti nel 1929 la loro aspettativa di vita era di 10 anni, oggi è sui 60 anni. Per questo è inammissibile che non vi siano politiche adeguate».
Cambiare lo sguardo aiuta anche in questo, sapersi cioè “sedere dall’altra parte del tavolo”. In altre parole, proviamo a modificare le nostre aspettative e a vedere le persone con sindrome di Down nel modo in cui loro vedono se stesse.
Spiega Sergio Silvestre, presidente del CoorDown: «Solo quando la disabilità sarà percepita come una delle sfaccettature della diversità si potrà davvero fare inclusione, riconoscendo l’unicità di ogni individuo. L’obiettivo è far volgere lo sguardo oltre gli stereotipi, costruire un nuovo immaginario collettivo e promuovere un’alfabetizzazione alla disabilità».
Quella domanda deve “scoppiare nelle teste”, far muovere le menti, colpire al cuore: «E tu come mi vedi?».