Nei giorni scorsi si è discusso se una donna incinta possa candidarsi a fare il sindaco in una grande città; essere mamma è certamente un’incombenza gravosa, ma nello stesso tempo assai importante, e tuttavia tante donne riescono a ricoprire molteplici ruoli: sono mamme, lavorano e, contemporaneamente, gestiscono la famiglia e la propria vita privata.
Una di queste è senza dubbio Manuela Canicattì, che nonostante la sua disabilità, conduce una vita a dir poco intensa. Proviamo a conoscerla meglio.
Manuela, da cosa possiamo iniziare per conoscerti meglio? Forse dalla famiglia?
«La mia strana famiglia! Divorziata dal mio primo marito con cui sono rimasta in ottimi rapporti, ho un compagno con cui convivo, una figlia, Serena, di 20 anni (figlia del mio ex marito), da poco diventata mamma, e un bimbo di 4 anni, Luca. Come sempre, quando si creano famiglie allargate, le situazioni diventano emotivamente importanti e delicate. Ho una vita affettiva intensa, per cui mi sento molto fortunata».
Nonostante la tua giovane età, sei da poco diventata nonna, ma, nello stesso tempo, sei anche mamma di un bimbo di 4 anni: come fai a gestire questo duplice ruolo?
«Essere nonna a 43 anni è un’esperienza stupefacente. Quando ho scoperto che mia figlia sarebbe diventata mamma, è stato uno shock: il tempo di realizzare e ci siamo messe a preparare i corredini.
Ogni giorno è faticoso, soprattutto quando la testa va a trecento all’ora e il corpo invece si muove come una lumachina; infatti, è sempre complicato far conciliare le cose e a fine giornata sono esausta. Mentre Serena e il suo fidanzato costruiscono il loro nido e il loro futuro… io ho iniziato ad elaborare l’abbandono del nido e la necessità di ricreare nuovi equilibri.
Luca, mio figlio, è diventato zio a soli 4 anni ed è uno zio tenerissimo, sensibilissimo e riempie ogni giornata con tutta l’allegria e l’energia che può avere un bimbo della sua età. Sono diventata mamma per la prima volta a 23 anni e siamo cresciute praticamente insieme creando un rapporto bellissimo. Ora che anche lei è mamma… sarà ancora più bello».
Passando al lavoro, di cosa ti occupi?
«Mi occupo di ricerca in àmbito oncologico e oncoematologico. Sono un’infermiera di ricerca e un coordinatore di ricerca clinica. Lavoro nella Struttura Operativa Complessa di Oncologia dell’Ospedale Cardinal Massaia di Asti, perché ho avuto la fortuna di trovare un primario eccezionalmente lungimirante e attentissimo alla ricerca e una coordinatrice che mi ha voluto fortemente nello staff; in questo modo posso unire la mia esperienza di infermiera a quella di data manager di ricerca, lavorando a stretto contatto con i pazienti e collaborando con Ospedali, Centri di Ricerca e Università Nazionali e Internazionali».
Sei arrivata a questo impiego dopo avere rivestito altri ruoli. Perché hai dovuto cambiare?
«Sono infermiera dal 1996. Ho lavorato in chirurgia generale, medicina e lungodegenza, poi ho trascorso gli anni più belli della mia vita lavorativa in Pronto Soccorso. Nel frattempo, però, mi accorgevo che qualcosa non andava nel mio corpo: dolori muscolari intensi, facile affaticamento, contrazioni muscolari dolorose e tempi di recupero sempre più lunghi.
Nel 2010 ho conseguito la Laurea Specialistica in Scienze Infermieristiche e Ostetriche presso la Facoltà di Medicina di Genova con il massimo dei voti. Nel maggio del 2011, dopo una gravidanza difficilissima e un parto drammatico, è nato Luca, otto mesi e lievi esiti di danni da ipossia cerebrale. A quel punto le mie condizioni di salute sono precipitate e tutti i sintomi peggiorati così tanto da costringermi a muovermi solo con le stampelle e a dovere accettare l’uso della carrozzina elettrica per gli spostamenti più lunghi: tutta la vita stravolta da reinventare.
Tornare a lavorare in reparto, nel “mio” Pronto Soccorso era ormai un’utopia e così ho iniziato a pensare al da farsi. Dal 2009 collaboravo con la Facoltà di Medicina di Torino per la Laurea in Infermieristica e la mia attuale coordinatrice un giorno mi chiese se poteva interessarmi occuparmi di protocolli sperimentali in àmbito oncologico: l’idea mi piacque moltissimo e così è iniziata questa nuova fase della mia vita. Un Master postuniversitario in Ricerca Clinica ha arricchito il mio bagaglio e la fortuna di essere affiancata da un bravissimo data manager ha fatto il resto».
Anche se la tua vita è già abbastanza impegnativa, hai deciso di iscriverti a un Master presso l’Università romana di Tor Vergata. In precedenza eri riuscita ad incastrare tutti i vari impegni – famiglia, lavoro e studio – ma, ultimamente, sono sorti dei problemi. Cos’è successo?
«Nel novembre dello scorso anno, l’ematologa con cui collaboro mi inviò una mail con le informazioni per un Master postuniversitario di primo livello specifico per la Gestione delle Sperimentazioni Cliniche Oncologiche ed Ematologiche. L’unico, che io sappia, in tutta Italia, e per di più organizzato dalla GIMEMA, Fondazione notissima per il suo ruolo nella ricerca in àmbito di malattie ematologiche a livello internazionale, presso cui avevo già conseguito il titolo di coordinatore di trial clinici. C’erano tutte le garanzie di un Master serio e di grande valore, per cui, senza pensarci tanto, mi sono iscritta.
I problemi sono insorti con le prime trasferte. L’obbligo di frequenza settimanale è risultato essere molto più pesante di quanto pensassi, girare Roma non è facile per chiunque arrivi da fuori, ma arrivare a Roma e poi girarvi in carrozzina è un’avventura difficilissima.
Innanzitutto, per poter viaggiare in treno devi organizzarti giorni prima, chiamando la Sala Blu e chiedendo assistenza per salire e scendere dai treni con la carrozzina; in nessun vagone, infatti, la mia carrozzina entra agilmente, per cui tutte le volte devo usare le stampelle, chiudere la carrozzina stessa, farla salire o scendere dal treno e rimontarla più o meno completamente. Poi, per caso, scopro gli Intercity Notte. Fantastico! Metto a nanna Luca, vado ad Asti in stazione, prendo il treno alle 22.30 e dormo comodamente in cuccetta, la carrozzina chiusa in fondo al vano e arrivo a Roma Ostiense alle 6 del mattino. Prendo il primo treno che passa per Roma Termini, quindi metropolitana fino ad Anagnina e ancora un autobus fino alla Facoltà di Biologia e Scienze Naturali di Tor Vergata. Lezione tutto il giorno e alla sera giro contrario: Intercity Notte a mezzanotte e alle 9 del mattino dopo sono di nuovo a casa. Ebbene, per tre volte tutto OK. L’ultima volta, però, i due operatori dell’assistenza disabili iniziano a dirmi che per loro non è comodo dover venire alle 6 a prendermi a Roma Ostiense, che sarebbe meglio se cercassi altri treni e che, anzi, hanno già inviato le loro lamentele ai responsabili. Così la settimana dopo, quando chiamo la Sala Blu di Torino per organizzare l’assistenza, la signora che mi risponde, mortificatissima, mi dice che ha ordini di non organizzarmi l’assistenza per l’Intercity Notte; sono quindi obbligata a prendere i treni che decide Trenitalia e a pernottare per due notti a Roma tutte le volte. Una marea di tempo e soldi sottratti prepotentemente a me e alla mia famiglia, senza alcun rispetto per le mie esigenze o per lo meno della mia opinione. Un disastro».
Hai provato a reclamare?
«Certamente, ma finora non ho ottenuto risposte ufficiali ed esaurienti. Aanzi, da qualcuno che porta avanti in televisione e nei social network i diritti per viaggiare in treno ho ricevuto un deludente “non so che dirti”, che mi ha deluso e demoralizzato tantissimo.
Tornando poi a parlare di Roma, va detto che anche utilizzarvi i mezzi pubblici è a dir poco complicato. Ci ho messo tre mesi per imparare a trovare e a usare la metropolitana, capire come salire e scendere dai mezzi pubblici, capire quale autobus prendere e quale evitare, perché arrivati a destinazione non c’è la discesa dalla pensilina oppure non esiste lo scivolo per salire e scendere dal marciapiedi.
Sul fronte degli alberghi, infine, non sono molti quelli in grado di ospitare persone con disabilità. In tanti, infatti, garantiscono l’accesso, ma poi ti trovi davanti a ostacoli architettonici di ogni tipo con disagi enormi.
Insomma, per otto ore di lezione, molti ostacoli da superare».
Qualcuno potrebbe pensare: «Hai una famiglia, un lavoro, perché ti sei voluta imbarcare in questa avventura?»
«Perché amo il mio lavoro, perché mi occupo di pazienti che ogni giorno si sottopongono a cure faticose e, talvolta, dolorose, per combattere contro il cancro e, perciò, hanno il diritto di avere a loro disposizione professionisti preparati, capaci ed aggiornati. E inoltre perché credo nella ricerca scientifica e penso che persone esperte in grado di fare bene il proprio lavoro possano fare la differenza in positivo nel trovare cure sempre più efficaci e con minori effetti collaterali».
Ma stai continuando a studiare oppure te n’è passata la voglia?
«Pentita di essermi iscritta al Master di Roma tantissimo. Ho preso un impegno e cercherò di portarlo a termine, ma mai più un’iniziativa del genere. Troppo tempo e troppi soldi sprecati, troppi ostacoli, troppa ottusità contro cui da sola non posso nulla.
Nello stesso tempo, però, il Master è magnifico, con docenti molto preparati, che si occupano di ricerca all’avanguardia in àmbito oncologico; dal punto di vista professionale è un grande arricchimento, ma sta di fatto che per una persona con disabilità che viene da un’altra Regione è un impegno davvero notevole. L’Università mi ha anche messo in contatto con Associazioni di Roma che potessero aiutarmi negli spostamenti, ma, all’ultimo momento, l’ente a cui mi ero rivolta mi ha comunicato la mancata convenzione con il Comune e che, quindi, non potevano aiutarmi. Si sono perciò limitati a consigliarmi di usare i taxi. Ma si ha idea di quanto costi attraversare la città da Roma Termini a Tor Vergata? 40 euro all’andata e altrettanti al ritorno. Se ne aggiungano almeno 120 di alberghi e almeno altri 100 di treni…. ogni settimana per quattro volte al mese per un anno».
Sono problemi, questi, di cui si sente parlare, purtroppo, abbastanza spesso. Secondo te, il fatto di reclamare può servire a qualcosa oppure oramai vengono considerate cose “impossibili da risolvere”?
«Ci sono mille cose che si potrebbero fare e soprattutto altrettante che per legge dovrebbero essere già state fatte. Esiste poi il buon senso, la buona volontà e innanzitutto il rispetto dei diritti e della dignità di ogni essere umano.
Di una cosa, però, sono certa: stare zitti mai! Stare zitti e subire significa diventare complici di un sistema sbagliato, distratto, pigro e irrispettoso nei confronti delle persone con disabilità. E questa sarebbe da parte mia una colpa imperdonabile nei confronti di chi invece non può scrivere, ribellarsi, gridare contro un’ingiustizia».
Chi ti conosce un po’ meglio ti ammira soprattutto per la tua serenità. Da cosa deriva?
«In parte è dovuta al carattere, in parte ho la fortuna di avere una famiglia che mi ama, che amo e che mi sostiene costantemente. Faccio un lavoro che adoro e che ogni giorno mi mette davanti alla malattia, al dolore, ma anche al coraggio, alla forza, alla speranza; gli occhi dei pazienti e dei colleghi mi ricordano quali sono le cose che davvero contano nella vita. Ho una vita in cui non mancano sofferenza e difficoltà, ma, per fortuna, è anche piena di amore, soddisfazione, amici e tanto altro. Questo non significa che non abbia momenti di grande scoramento, rabbia, tristezza. Poche emozioni, infatti, sono terribili quanto sentirsi impotenti di fronte a un’ingiustizia…».