Fino a due anni fa chiunque si occupava di “sociale” era dipinto come un “santo”. Un “supereroe”. Adesso è un “ladro” (Mafia Capitale docet), uno “stupratore di bambini”, un “picchiatore di disabili”, un educatore talmente distratto da non accorgersi che i suoi ragazzi vanno a vendersi alla Stazione Termini di Roma (e qui mi riferisco segnatamente a servizi televisivi come quelli di Presa Diretta su Raitre del 25 gennaio 2015 e molto più recentemente delle Iene su Italia 1 del 20 marzo scorso).
Non tollero chi generalizza, chi non fa i nomi, chi non entra nel merito. E mi piacerebbe aprire una discussione franca, serena, dentro al nostro mondo. Per stigmatizzare e allontanare chi non gestisce i servizi come si dovrebbe, chi non controlla. Per allontanare “senza se e senza ma” quegli operatori violenti, cattivi. Anzi, aggiungo: al di là del reato penale, se non hai una buona dose di tenerezza, amico mio, non sei portato per questo lavoro!
Parliamo innanzitutto di case famiglia per bambini e ragazzi, dove i luoghi comuni a dir poco abbondano: ad esempio, non è vero che i bambini vengono tolti a famiglie-modello e «bastava dare i soldi alla famiglia». No, non è così. Ma nessuno di noi, mai, vi verrà a raccontare che quel bambino accolto è vittima di abusi e violenze proprio dal padre, dalla madre, dal fratello. Le storie sono complesse, difficili. E il primo che tuteliamo è quel bambino che viene da noi!
Non ci troverete in TV a fare i nomi dei nostri ragazzi e bambini e a raccontarvi le loro storie più intime. E quando a farlo sono giornalisti e genitori, inorridiamo. Non si risolvono in TV certi drammi. E siccome le storie sono complesse, ci può essere l’errore di valutazione, l’assistente sociale che sbaglia, il giudice che non ha elementi per decidere, l’abbaglio. Può succedere. Ma non dovrebbe e quando accade va condannato.
Secondo luogo comune: «Se li tengono in casa famiglia invece che farli adottare». Non è così semplice. Di certo, se ci fossero molte più famiglie affidatarie (oltre che adottive) disponibili anche per i bambini grandi e difficili, molti di loro potrebbero uscire… non tutti. Ma, invece, siamo tutti col dito, o meglio il telecomando, puntato, ma nessuno che dica: «Sai che c’è? Ne prendo io uno a casa con me».
Terzo luogo comune: «Queste case famiglia prendono un sacco di soldi, chissà che ci fanno». A questo rispondo con forza: ci fanno ben poco, perché pagare il giusto il lavoro di due educatori professionali 24 ore su 24, 365 giorni l’anno ha un costo! Per la precisione, solo per i loro stipendi servirebbero 128 euro al giorno, e non gli attuali 70. Poi c’è una casa da gestire, persone da far mangiare e far mangiare bene, affitti da pagare, luce telefono gas, insomma una casa, ma per otto persone. Per cui, per far funzionare tutto e bene, di euro ne servirebbero 174, e non 70! In tal senso invito tutti a leggere un rapporto che abbiamo pubblicato lo scorso anno, sui Costi standard di una comunità di accoglienza.
Quarto luogo comune: «Nessuno li segue e chissà cosa fanno» (e qui mi riferisco specificamente proprio al già citato servizio televisivo delle Iene, dove intervistavano i ragazzi che si prostituiscono alla Stazione Termini di Roma). E io rispondo: per prima cosa, ma possibile che nessuno si sia indignato contro quegli adulti schifosi e bavosi che vanno con i bambini? Ci vorrebbe un attimo per arrestarli e lasciarli in galera tutti gli anni che servono fino alla totale impotenza (due telecamere nel bagno, e due poliziotti in borghese pronti a fermarli un attimo prima). Detto questo, non fare i nomi delle case famiglia nel servizio lascia lo spettatore nel dubbio e nella generalizzazione.
In realtà, un bravo educatore si accorge se un ragazzino fa soldi facile, se non torna a casa in orario, se frequenta giri strani. Hanno ragione Le iene a indignarsi (ma non a generalizzare!) e tuttavia qui entrano in gioco altre dinamiche, molto complesse, ma che dobbiamo dirci. Dobbiamo dirci del fallimento del nostro lavoro: non siamo supereroi, non facciamo miracoli. Alle volte ce la mettiamo tutta, e i ragazzi che passando da noi diventano pasticcieri famosi, giardinieri coraggiosi, lavoratori onesti. Ma non tutti ce la fanno. E i soldi facili attirano tutti. Italiani e stranieri. E fare i conti col fallimento del proprio lavoro è dura, durissima. Ma le storie dobbiamo raccontarcele tutte. Condannando chi lavora male e comprendendo la complessità.
Quinto luogo comune: «Tornassero a casa loro gli stranieri» o «levano il lavoro agli italiani». Sì, perché quando poi le storie sono belle e di successo (come quella di Hilal, «da kamikaze-bambino a pasticciere», che da un articolo sulla «Stampa» è finito su Raiuno, sul «Times» di Londra e su mille altri giornali e proprio mentre sto scrivendo anche su RadioUno RAI)…
Ecco, vorrei sommessamente ricordare che siamo in uno Stato con delle regole precise e belle: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge» (Costituzione della Repubblica Italiana, articolo 10).
E ancora, servono, come il pane, strumenti di salvaguardia. Riunioni, formazione, supervisione, scambio tra gli operatori. scambi di esperienze (già, ma con quali soldi?). È un lavoro che va raccontato, in cui la parola è forma, è sostanza della relazione, tra colleghi e con i ragazzi.
Ecco, insomma, sono questioni complesse, alle volte dolorose, su cui dire una parola che non sia di complessità è difficile. Questo è un lavoro che quando è fatto bene chiama in gioco la persona tutta intera, le sue emozioni, i suoi vissuti più intimi, in cui la relazione si gioca proprio lì e deve fare i conti, ogni giorno, con i propri “mostri”, con le proprie “parti oscure” e fragili. Perché questo lavoro “non è come stare alla cassa del supermercato” e ciascuno di noi ha una parte oscura (è famoso l’esperimento di psicologia sociale del 1961, noto come “esperimento di Milgram”: oltre il 60% delle persone che lo fecero, somministrarono scosse letali solo perché qualcuno gliel’ordinava. Persone per bene, di sani e solidi principi morali…).
Proprio mentre sto scrivendo, le notizie continuano ad accumulrsi: hanno chiuso vicino a Roma una casa famiglia, che maltrattava ragazzi (Sigilli alla casa famiglia lager: 7 minori senza neanche le coperte, titolano i giornali oggi).
Ben vengano le chiusure e i controlli. Ma qualcuno ci spieghi come si fa a tenere in vita una casa famiglia senza prendersi anche la responsabilità di finanziarla. La qualità si paga.
All’Aquila, ricordo, venne giù un padiglione dell’ospedale. Si scoprì che invece che con il cemento armato, i pilastri erano fatti con la sabbia per risparmiare… ecco, nel sociale vale lo stesso discorso. Le cose si fanno bene, si pagano il giusto e si controllano!
In Nord Europa i controlli delle case famiglia sono affidati ai ragazzi neomaggiorenni appena usciti dalle strutture residenziali, accompagnati da un ispettore adulto. Ma chi meglio di loro sa fare le domande giuste sui maltrattamenti, sul cibo scadente, sulla capacità degli operatori? Mi pare una buona idea. Più attenzione significa più denari e meglio spesi. E più controlli.
Quanto mi piacerebbe sentire una parola chiara e definitiva da chi ha la responsabilità ultima: nel nostro specifico dal Comune di Roma. Come vorrei che facesse dei distinguo. Come vorrei che il commissario Tronca, e poi il Sindaco che verrà, si impegnassero a pagare il giusto e a “stracontrollare” tutti. Come vorrei che il Dipartimento Politiche Sociali dicesse una parola chiara al Prefetto e alla città su come funzionano e come dovrebbero funzionare queste strutture… (su quanto costano: sono mesi che lo chiediamo!).
E veniamo al drammatico tema delle violenze sulle persone con disabilità.
Rifuggo da chi punta il dito giudicando e illudendosi («solo gli altri sono cattivi, da noi non accadrà mai»). No, potrebbe accadere anche nelle “migliori famiglie”. E allora teniamo alta la guardia, osserviamo.
Proprio questa mattina una persona con disabilità si è lamentata dell’autista del pulmino convenzionato con la ASL che la tratta male. Abbiamo pensato «inventa o dice il vero?». Allora un nostro operatore si è avvicinato per osservare meglio. Lei scende dal pulmino e fa le corna all’autista. Quello risponde: «Sei un’handicappata, te la faccio pagare, tu non sai chi sono io». Ecco, la nostra denuncia è partita. Mi aspetto dai sindacati nessuna difesa, per nessun motivo. Non c’è diritto al posto di lavoro che tenga, di fronte alla violenza, anche verbale. O no? Mi aspetto dalla ASL una presa di posizione ferma, irrevocabile. Perché le violenze possono essere subdole, ed è difficilissimo dire «io no». Cosa fare dunque?
Concludo con un pensiero bello e profondo di Fabrizio Aphel, responsabile di una casa famiglia per persone con disabilità: «Penso che dove c’è fragilità (vedi bambini, disabili, anziani), la nostra parte ombra è tentata di prendere il sopravvento. È stato così con il nazismo, con i manicomi… E illuderci di essersi lasciati tutto ciò alle spalle senza confrontarsi realmente con noi stessi è un’illusione pericolosa. Non mi stupirei se quell’educatore del Litta [il centro di Grottaferrata in provincia di Roma dove sono state arrestate quattro persone per violenze, N.d.R.] fosse un amorevole padre di famiglia che coltiva le rose nel suo giardino. Farne dei “mostri” spesso è solo un modo per non vedere anche nelle profondità di se stessi. Per esempio ridurre gli organici nel rapporto operatori/“utenti” è un modo di creare stress, ridurre la relazione a contenimento è foriero di disumanizzazione. Formazione intesa come autoeducazione sarà sempre più necessaria, se non vorremo trovarci a constatare degradi umani ogni dove. Le telecamere servono a denunciare, non a impedire che l’uomo fallisca nella sua umanità».
Ed ecco di nuovo: risorse adeguate, controlli, umanità, qualità. Ecco il mio pensiero. Lungo e articolato. Altrimenti non poteva essere.