Signor Presidente, la nostra Carta Costituzionale riserva un’attenzione particolare alle persone con disabilità, ai temi dell’uguaglianza, dell’inclusione sociale, del diritto al lavoro e alla salute. Un solco confermato da numerosi pronunciamenti della stessa Corte Costituzionale nel corso degli anni.
Il Trattato di Lisbona riconosce l’uguaglianza e il divieto di ogni discriminazione come elementi fondativi dell’Unione Europea. L’Unione ha prodotto direttive e raccomandazioni a favore dell’inclusione delle persone con disabilità, l’ONU nel 2006 ha approvato la Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità, atto ratificato rapidamente dall’Italia nel 2009 [Legge 18/09, N.d.R.]: diritti umani e ancora una volta inclusione, libertà di decidere su tutto ciò che riguarda la propria esistenza.
La Convenzione ONU ci indica la strada, ci suggerisce il modo concreto di operare, improntando azioni e politiche volte all’inclusione sociale. Non più verso l’integrazione. Il termine integrazione conserva infatti un retrogusto amaro: quello di un corpo estraneo accolto in un contesto altrimenti ostile. L’inclusione presuppone invece un profondo e convinto ripensamento di quel contesto, adeguandolo alle esigenze di tutti.
Ma prevale ancora oggi il pregiudizio – da cui scaturisce un approccio paternalistico e uno stigma di improduttività – verso le persone con disabilità, soprattutto verso quelle con disabilità intellettiva. Un muro di pregiudizi, anche inconsapevoli, talvolta apparentemente innocui, difficili da abbattere nei sentimenti e nelle coscienze delle persone.
La disabilità non è un evento eccezionale: riguarda milioni di persone e può interessare, nella vita, chiunque di noi.
La disabilità non è dipendenza: se vengono loro offerte condizioni idonee, le persone con disabilità studiano, lavorano, praticano sport, vanno in vacanza, hanno amici, formano famiglie, frequentano cinema, teatri, musei, discoteche, ristoranti e pub…
Oggi oltre due milioni di persone con disabilità intellettiva sono rimaste fuori da questa aula. Questa splendida sala non è cosi capiente da accogliere tutte le persone con grave disabilità che vivono in questo Paese, ma è forse capace di ascoltare le loro voci, di visualizzare anche le loro storie, finanche di avere una certezza della loro qualità di vita.
Siamo cittadini, innanzitutto, non malati, non incapaci, nonostante secoli di segregazione e di invisibilità abbiano creato un’immagine luttuosa e deformata della disabilità, erigendo un muro di pregiudizi, anche inconsapevoli, difficili da abbattere nei sentimenti e nelle coscienze delle persone. E i pregiudizi determinano e giustificano comportamenti personali e scelte politiche e sociali discriminanti.
Per usare le parole di Ban Ki-moon [segretario generale delle Nazioni Unite, N.d.R.], occorre costruire un cambio di paradigma, una vera e propria rivoluzione copernicana a partire dall’approccio: non più malati ma persone. Occorre creare, favorire, promuovere e garantire quelle condizioni idonee che diano cittadinanza e pari dignità alle persone con disabilità intellettiva e alle loro famiglie. Questo è un compito inderogabile della nostra Repubblica, della nostra politica.
Quella politica che immaginiamo abbia attenzione e solerzia per tutti i suoi cittadini, senza distinzioni, come già ci insegna la nostra Carta Costituzionale.
La disabilità intellettiva è forse la meno conosciuta e questo relega le persone in un limbo che le rende nella stragrande maggioranza dei casi “cittadini invisibili”. Ciò comporta un profondo ripensamento delle politiche e dei servizi, fino ad oggi imperniati in gran parte solo sulla sanitarizzazione delle persone con disabilità, tanto più quando si tratta di disabilità intellettiva. È allora necessario comprendere che quella per la disabilità non è una spesa, ma un investimento.
Rendere le persone autonome, protagoniste della propria vita, sostenere e riconoscere ufficialmente il ruolo dei caregiver familiari, trasforma le persone stesse da “pesi” a protagonisti e libera risorse: nella scuola, nel lavoro, nelle relazioni sociali, nelle nostre comunità.
Oggi, purtroppo, nella stragrande maggioranza dei casi è la sola famiglia a doversi assumere l’intero carico di cura e assistenza delle persone con disabilità intellettiva per tutto l’arco della vita. Il dato che rileviamo nasce dalla diretta esperienza delle persone con disabilità intellettiva e dei loro familiari che fanno riferimento alle nostre organizzazioni.
Ancor più penalizzate sono le persone con disabilita intellettiva e i loro familiari che nascono e vivono nelle Regioni del Centro-Sud d’Italia o in aree marginali. Aspetto, questo, che ormai da tempo ci porta a ritenere che «Nascere con una disabilità in un luogo o in un altro del paese significa nascere disabili due volte!».
L’intervento precoce e tempestivo e la presa in carico da parte della Repubblica della persona e della sua famiglia, attraverso la predisposizione del progetto di vita, individuale, globale e continuativo, dovrebbero essere garantiti in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale e le risorse allocate dovrebbero essere adeguate a rendere pienamente esigibili i diversi sostegni individuati dal progetto stesso.
Alle persone con disabilità intellettiva, a partire da quelle in situazioni di maggiore gravità, dovrebbero essere forniti i giusti e adeguati sostegni, per rendere concreto il diritto alla piena inclusione sociale e alla partecipazione attiva nella società, in condizione di pari opportunità e non discriminazione rispetto alla generalità dei Cittadini italiani ed europei.
Il racconto della vita reale e quotidianità delle persone con disabilità intellettiva e dei loro familiari ci restituisce e ci testimonia che i diritti civili e umani sanciti dalla nostra Costituzione e dalla Convenzione ONU non vengono pienamente garantiti. Questo determina un senso di abbandono e solitudine che non di rado sfocia in autentica disperazione e in gesti “estremi” di cui la cronaca è ormai ricca.
In questo quadro è evidente che le persone con disabilità intellettiva, ancora oggi, vivono situazioni di discriminazione, esclusione e deprivazione, attenuate spesso solo grazie all’intervento delle famiglie e dei servizi che le stesse famiglie, autorganizzandosi, tentano di assicurare, non senza crescenti difficoltà. E ciò pure in presenza di tante leggi, alcune tra le migliori a livello europeo e mondiale, ma spesso malamente applicate.
Lo sappiamo bene – noi – che uno dei primi determinanti della povertà è proprio la condizione di disabilità che sospinge verso la marginalità, che erode giorno dopo giorno risorse alle famiglie. Si registra, invece, un progressivo e maggiore carico economico che grava proprio su queste famiglie le quali, invece, dovrebbero essere a loro volta sostenute, e ciò porta alla rinuncia o all’abbandono dei servizi stessi.
Nonostante tale drammatico quadro, oggi le persone con disabilità intellettiva vivono più a lungo, alcune di loro raggiungono livelli di autonomia importanti, altre lavorano, acquisiscono competenze e abilità che potrebbero spendere in cicli produttivi attivi, ove si fornissero loro le giuste opportunità e gli adeguati sostegni.
Tante sono le conoscenze di cui oggi, grazie alla ricerca scientifica, disponiamo e tante le buone prassi che ci infondono speranza per un futuro migliore, a partire dai bambini con disabilità e dalle loro giovani famiglie.
In questo scenario, dunque, vogliamo dare voce a un pezzo importante di Cittadini Italiani che spesso voce non hanno. Infatti, anche i media frequentemente faticano a rappresentare la complessità insita nella disabilità in genere e in particolare nelle disabilità intellettive a più alta necessità e intensità di sostegni.
Reiteriamo allora l’affermazione che tutte le persone con disabilità sono titolari, a pieno titolo, di tutti i diritti umani e di tutti i diritti di cittadinanza al pari di ogni altro cittadino.
Signor Presidente, oggi abbiamo imparato a superare la sterile rabbia e l’improduttivo mugugno: siamo infatti a disposizione con le esperienze quotidiane di quegli oltre due milioni di cittadini, per migliorare la condizione di vita delle tante persone con disabilità intellettiva nel nostro Paese, ma anche la generale qualità della convivenza civile.
L’inclusione presuppone un profondo e convinto ripensamento del contesto sociale, adeguandolo alle esigenze di tutti, e quindi anche delle persone con disabilità intellettiva che sono oggi al centro della nostra riflessione.
La Convenzione ONU rigetta qualsivoglia forma di segregazione: ogni persona deve poter scegliere dove e con chi vivere, rimanendo in ambienti che il più possibile riproducano il contesto delle relazioni familiari. Al contrario, ancora oggi, in Italia, oltre 250.000 persone con disabilità vivono in istituti, in situazioni potenzialmente segreganti. E fra esse moltissime sono le proprio le persone con disabilità intellettiva.
I fatti di cronaca di questi ultimi mesi riportano drammaticamente alla ribalta episodi di violenza e maltrattamenti, figli di quella stessa segregazione e isolamento che da anni denunciamo. La politica, con il nostro contributo, deve occuparsi celermente di questi aspetti ben prima che siano costrette ad occuparsene la Magistratura e le Forze dell’Ordine.
In tale ottica, è anche necessario contrastare l’odiosa prassi del confinamento delle persone con disabilità intellettiva divenute anziane in case di riposo, al solo fine di conseguire un risparmio economico. Vanno cioè ripensati radicalmente i sostegni per l’abitare in autonomia, che consentano alle persone di rimanere presso il proprio domicilio, ma vanno anche rigorosamente fissati criteri che governino i servizi per l’abitare, in una logica che ponga al centro la dignità e la libertà delle persone o di chi le rappresentano. E soprattutto va programmata rapidamente una progressiva deistituzionalizzazione delle persone con disabilità oggi segregate.
Alcuni semplici dati possono chiarire ancor meglio il quadro della situazione.
Secondo l’Eurostat (dati del 2013), le ridotte politiche sociali di questo Paese ci collocano al 25° posto su 27 nell’Unione Europea, quanto a spesa assistenziale e di welfare. Domina, inoltre, la spesa privata e/o quella sanitaria. Occorre quindi un’inversione di tendenza di questo sistema, finanche ristrutturando una parte di quella sanitaria. E occorre un cambio di prospettiva affinché le persone con disabilità intellettiva non divengano oggetto di mera assistenza, ma protagoniste della propria vita.
Altre cifre: il 70% delle famiglie con persone con disabilità non fruisce di alcun servizio domiciliare. I Comuni italiani spendono meno di 8 euro al giorno per persona con disabilità e all’insegna di una profonda disparità territoriale. E ancora: la Calabria spende meno di 500 euro all’anno per persona con disabilità contro una media nazionale di 3.000 euro.
Tutto ciò è causa di esclusione e confinamento, non solo delle persone con disabilità, ma anche dei caregiver familiari – prevalentemente donne (madri, mogli, sorelle) – che le assistono, compensando con una dedizione gravosa l’assenza o la carenza dei servizi. Ciò produrrà effetti nefasti: le stesse donne, infatti, entreranno nel circuito assistenziale e saranno a loro volta prive di protezione previdenziale.
Per garantire “condizioni idonee” e “pari opportunità” c’è ancora molta strada da percorrere, a incominciare da una profonda revisione degli stessi criteri di valutazione della disabilità.
Da più parti e in più atti viene richiamata la necessità di valutare la disabilità secondo criteri biopsicosociali, ma, al contrario, essa viene ancora intesa come “problema sanitario del singolo”, come limitazione, come concetto prevalentemente medico.
È un cambio di paradigma quello che viene richiesto. Lo chiedono le stesse persone con disabilità e le loro famiglie, soprattutto delle persone con maggiore necessità di sostegni ad alta intensità.
In aggiunta, le persone e le famiglie vivono l’ansia del “dopo di noi”: «Cosa sarà dei nostri figli domani quando noi non ci saremo più?». Da qui l’esigenza di promuovere nuovi servizi e risposte già nel “durante noi”, nella prospettiva della costruzione di un progetto di vita che non sia gestito in emergenza per la spasmodica ricerca di un “posto letto”.
Le poche esperienze esistenti hanno dimostrato quanto sia importante porre l’attenzione alla crescita dell’autonomia possibile di queste persone e sulla sperimentazione di forme dell’abitare fuori dalla casa familiare già in giovane età. Da qui vi è la necessità di ripensare anche – rapidamente – agli istituti di tutela giuridica in àmbito civilistico, a partire dall’abrogazione dell’istituto dell’interdizione.
Ambedue gli aspetti sono presenti in diversi Disegni di Legge all’esame del Senato, dopo essere stati approvati dalla Camera: acceleriamone la discussione, ma qualifichiamone ancora meglio i contenuti, in particolare prestando attenzione al rischio di riprodurre ancora istituzioni segreganti.
Signor Presidente, a condizioni idonee le persone con disabilità intellettiva potrebbero essere compiutamente Cittadini delle proprie comunità. Creare, favorire, promuovere, garantire quelle condizioni idonee è un compito inderogabile della nostra Repubblica, della nostra politica.
Queste “idonee condizioni” le chiedono le persone con disabilità intellettiva e le loro famiglie che aspirano a costruire un loro progetto di vita, per consolidare e rendere concreta la propria autonomia, la propria indipendenza.
Queste “idonee condizioni” le chiedono coloro che vogliono rimanere presso il proprio domicilio ed evitare ricoveri in RSA [Residenze Sanitarie Assistenziali, N.d.R.], in istituti.
Contribuire a queste istanze significa restituire diritto di cittadinanza, ma – ne abbiamo la certezza – comporta anche investire le risorse del nostro Paese in una direzione diversa dalla segregazione e dall’esclusione sociale.
Un buon welfare è motore di sviluppo, oltre che di coesione ed equità nelle nostre comunità e nelle nostre famiglie. Cosi come buoni interventi in àmbito sanitario – intesi come diagnosi tempestiva, abilitazione e capacitazione, diffusione omogenea di competenze e di professionalità, accesso alle cure in modo uniforme su tutto il territorio nazionale – diventano temi delicati e sensibili che richiedono la certezza di un impegno a tutti i livelli istituzionali, nazionali e locali.
È necessario che si sviluppi sull’intero territorio nazionale un Coordinamento delle Agenzie Pubbliche al cui interno siano individuate le competenze relative all’àmbito Salute, Scuola, Welfare e Lavoro.
Nuove esaltanti esperienze pongono l’Italia tra gli Stati più avanzati in Europa e nel mondo: uno degli esempi più attuali è la prima piattaforma degli “autorappresentanti italiani”, persone con disabilità intellettiva che adeguatamente formate e supportate riconoscono, rivendicano ed esigono in prima persona i loro diritti [Dichiarazione di Roma per la promozione ed il sostegno dell’auto-rappresentanza in Italia ed in Europa, N.d.R.].
Su tutti questi aspetti sono stati sparsi dei semi negli atti parlamentari: interrogazioni, indagini, dossier, proposte di legge. Alcune di queste noi stessi le abbiamo favorite, ma in molti casi bisogna ancora far germinare quanto è stato seminato (a tal proposito si rende necessario emanare ad horas il provvedimento sui Livelli Essenziali di Assistenza per i disturbi dello spettro autistico), accelerando assieme i processi di condivisa produzione normativa, immettendo con oculatezza nuove risorse, affrontando le nuove e vecchie sfide in chiave inclusiva, che convintamente coinvolgano tutti gli àmbiti territoriali, istituzionali e dell’impegno civile. Uno slancio che non è solo per le persone con disabilità, ma per qualsiasi persona viva in questo Paese.
Noi ci stiamo Signor Presidente, come movimento maturo e consapevole di tutti i dibattiti più attuali, non solo di quelli di “settore”. Vogliamo e dobbiamo esserci, come persone con disabilità e come familiari consci del nostro orgoglio e della nostra dignità su cui non facciamo sconti a nessuno e su cui non vi sono e non vi saranno accomodamenti ragionevoli, né oggi, né mai.