Questa sala magnifica è sovrastata da qualcosa di invisibile, ma tremendamente reale e cogente. È una rete fitta, fatta di legami inestricabili, che imprigiona costringe e potenzialmente uccide chi ne faccia parte. Una rete fatta da tutti i cordoni che legano a filo doppio le persone con problemi psichici e mentali ai propri familiari.
Il mio desiderio più grande, la mia più grande speranza, è che questa rete in cui tutti noi qui siamo intrappolati possiamo percepirla un giorno come una semplice rete di protezione, quella che tutte le famiglie cosiddette “normali” stendono intorno ai propri cari: un’opportunità, un sostegno, e non una prigione.
Ma di strada da fare ce n’è molta. Si discute in Parlamento e a livello regionale di nuovi provvedimenti legislativi, e qualcuno – per esempio la Legge sull’autismo [Legge 134/15, N.d.R.] è già stato approvato. Piccoli passi avanti, ma siamo ancora molto lontani dal punto in cui si potrà dire di ciascuno di noi che siamo finalmente persone con una vita degna di essere vissuta, cittadini e non utenti o familiari o assistiti.
È difficile, ma non impossibile. È costoso da un certo punto di vista, ma è certamente un costo in meno di sofferenza, uno spreco di risorse umane e finanziarie che è del tutto possibile evitare.
Per fare solo un esempio: il budget di cura, di cui si parla da molti anni, ma che vede per ora solo sporadiche sperimentazioni, permette – permetterebbe – di costruire progetti davvero personalizzati, tali da consentire spesso alle persone in difficoltà un’atonomia impensabile allo stato attuale delle cose. Per non dire dei ricoveri in istituto o nei reparti di diagnosi e cura, costosi e patogeni quanto lo erano i manicomi.
Le Istituzioni devono fare la loro parte, ma anche noi dobbiamo fare al meglio la nostra. Perché troppo spesso si parla di diritto dei familiari ad avere spazi di sollievo, ma quasi mai del diritto dei nostri figli a liberarsi di noi, a non essere più figli, ma uomini e donne.
So bene, da madre, quanto sia difficile fidarsi, quanta ansia provochi la decisione di affidarsi ad altri, di affidare ad altri la sorte di chi ci è più caro. Il mondo non sta lì ad aspettare e ad accogliere a braccia aperte le persone in difficoltà. Ma è l’unica via, non solo perché nessuno di noi vivrà in eterno, ma perché la corda rigida di cui parlavo impedisce alle persone in difficoltà l’autonomia possibile, dunque ogni vera possibilità di vivere appieno la propria vita.
In questo senso, il “dopo di noi” che angoscia anche me dev’essere prima di tutto il “durante noi”, la costruzione di progetti articolati che mettano a frutto le esperienze delle famiglie senza restare impigliati, come càpita inevitabilmente a noi, in abitudini stratificate e senso di protezione eccessivo.
È difficile, ma si può. Si deve. L’incontro di oggi con il Presidente della Repubblica e la stessa trasmissione RAI di questo evento, confermano che non brancoliamo nel buio, che non siamo soli, che con altri e altre possiamo costruire un mondo migliore: migliore per tutti, e non solo per i disabili, che ne sono la cartina di tornasole. Senza di loro, senza la loro presenza attiva, il mondo è monco, gli manca un pezzo, e questo è un problema di tutti e per tutti.