Il 2 aprile 2016, nona Giornata Mondiale per la Consapevolezza dell’Autismo, si è inserita nella nostra Regione [la Toscana, N.d.R.] nel bel mezzo di un dibattito sul “durante di noi” e sul “dopo di noi”.
Molte sono le novità che ci arrivano dalla legge in approvazione in Parlamento, che sono in sintonia con le Linee di Indirizzo della Regione Toscana, che parlano di vita indipendente, de-istituzionalizzazione, abitare assistito, lavoro assistito. Nonostante questi – che noi consideriamo passi avanti per la vita delle persone con disabilità mentale e con autismo – a Pisa stanno costruendo un istituto da cento posti almeno, a Empoli (Firenze) c’è in progetto un istituto da settanta posti almeno. Si è aperto un dibattito a tutti i livelli che è giusto venga portato avanti nell’interesse dei nostri ragazzi. Dibattito al quale, come Associazione Autismo Toscana, partecipiamo.
Se è vero che non può esistere un “dopo di noi” senza un “durante di noi”, la realizzazione di questi istituti-contenitore rende inutile, faticosamente inutile ogni tentativo di “durante di noi”, di inclusione sociale. Perché inventarci un quotidiano, se poi a un’età stabilita su una carta si va in queste strutture, anche belle, talvolta orribili, qualche volta disumane?
La cronaca di queste settimane ci è tristemente testimone. E noi che ci battiamo per qualcosa di diverso, che si chiama vita, veniamo guardati come nostalgici naïf innamorati di un’idea irrealizzabile: «…mica lavorano questi autistici, non sanno fare, non sanno stare, non sanno lavorare. Costruire istituti, quello sì bisogna fare, bisogna pensarci noi a quelli che non, non, non… Belli s’intende. Nessuno può negare che i vecchi istituti sono una vergogna, sono inadeguati. Nei nuovi istituti ci deve essere ogni confort, certo. Bei cessi, buoni cibi, qualche svago, un po’ di lavoro per ingannare il tempo: infilare perline, fare bustine e fiori di carta, qualche terracotta, bamboline e giocattoli di plastica; e buoni medici, e medicine soprattutto. E un bel giardino – per l’ora d’aria, dice qualche maligno – ma non fuori, in città, in mezzo a noi, in mezzo al traffico che già uccide noi sani, s’immagina questi ragazzi?»…
E allora cominciamo noi, noi attori protagonisti di un qualcosa che altri pensano per noi, dobbiamo dirlo e dirlo bene: non si facciano più istituti, non si facciano più istituti-contenitore. Noi per primi e con forza dobbiamo dirlo, vincendo paura e incertezze. Noi per primi.
Questo ci impone di cambiare la nostra visione del futuro, il nostro lavoro. Ci impone orizzonti diversi. Non esiste un “dopo di noi” decoroso senza un “durante di noi” attivo e decoroso. Se noi scegliamo tutti insieme di non avere poi alla fine comunque un contenitore dove metterli, dobbiamo cambiare il nostro lavoro. Noi per primi dobbiamo accettare che i nostri ragazzi possano vivere nel mondo delle possibilità e provare a giocarsi la loro vita. Ognuno la propria vita intera e non già pezzetti di essa, frammenti, brandelli che non ricostruiscono mai una storia.
Quante persone con disabilità mentale sono uscite dai nostri centri diurni per una vita indipendente, autodeterminata, anche protetta? I nostri centri diurni sono spesso aperti solo in entrata e l’uscita da questi centri non è mai verso la vita, ma verso un altro posto, un posto letto, un posto in un istituto più grande o semplicemente “più adatto alla sua età”. E che cosa sono ora spesso i centri diurni, aperti solo in entrata, sparsi nei nostri territori se non la somma di ambulatori sparsi preesistenti? Che cos’è un centro diurno che non dialoga con la comunità inventandosi continuamente modalità di uscita?
Non esistono mezze misure e non vogliamo costruire semplicemente luoghi più piccoli, istituti più piccoli, frammentazione di un’idea precedente, perché questo sfocia inevitabilmente in una riproduzione – in miniatura – di istituti più grandi, dei loro ambulatori, del loro modello. Se non cambiamo visione, o logica di ragionamento, finiremo per rafforzare vecchi percorsi. Anche costruendo luoghi semplicemente più piccoli.
Questa è una battaglia di civiltà, una vera e propria lotta politica, lotta intesa alla maturazione di un’idea, a una presa di coscienza, forse una rivoluzione, ma una rivoluzione di coscienze.
E allora, per opporci all’istituzione classica, dobbiamo inventarci noi un’istituzione che non è altro che una pratica che ogni giorno, pur in un’organizzazione prevista, ci porta a capire che dobbiamo, continuamente, inventare qualcosa.
La città, la comunità, devono essere coinvolti con tutti i mezzi possibili, dalle feste, all’uso degli spazi, alla proposta di ulteriori e diversi servizi. Nessuna staticità ci è permessa, ma è necessario anzi valorizzare tutti i possibili contatti, incontri, alleanze, amicizie, ricercare collaborazione, accordi, intese. E questi percorsi sono delle vere e proprie lotte, per la salute mentale, per la disabilità mentale che si inseriscono a pieno diritto nelle lotte dei lavoratori per la difesa della loro salute e del loro posto di lavoro.
La collocazione in un posto di lavoro, anche con un piccolo contratto lavorativo, riesce a definire la singolarità della persona e “guarisce” così la persona stessa, ammessa nel tessuto sociale. Il lavoro è un diritto di cittadinanza: fonte di reddito che consente indipendenza, ma soprattutto di realizzazione della persona, di ruolo nella comunità, di dignità.
La struttura, l’istituzione produce oggetti, povere cose da collocare in un lontano altrove, un lavoro, un ruolo nella società produce persone.
Cominciamo a chiamarli per nome, ad avere un progetto per queste persone, un singolare riconoscimento, e a smetterla di definirli per categorie: autistici, disabili e successive sottocategorie. Abbiamo la necessità di riconoscerle, queste persone, di valorizzare le loro potenzialità, la loro umanità, la loro creatività, narrare le loro storie e sostenerle nel percorso difficile dell’emersione.
Rinchiudere, isolare, anche allo scopo benemerito della cura e della riabilitazione, può risultare – è sicuramente – controproducente, per non dire di peggio. Siamo destinati a fallire, se noi costruiamo i servizi solo cercando di calibrare in maniera ottimale le équipe o di studiare se il servizio o il reparto o il diurno debba essere “per soli acuti”, “per soli cronici”, “per giovani adulti”, “per meno giovani fino a 25 oltre 25”, insomma tutte queste divisioni che si leggono, divisioni talvolta francamente incomprensibili in quel continuum che è la vita.
Questa nuova condizione occupazionale, lavorativa, l’organizzazione della giornata, la semplice risposta alle domande delle persone, intese come bisogni, crea una “dimensione riabilitativa” insospettabile e incomparabile rispetto alle condizioni di vita precedente.
Il lavoro vero fa sì che la vita di queste persone si intrecci con lo spazio vivo intorno al posto di lavoro, alla nostra casetta di legno, ai nostri terreni, ai nostri punti vendita: il progetto degli Ortolani Coraggiosi di Ventignano* (Firenze), il loro lavoro, la loro vita, com’è normale che sia, si intreccia con la vita della comunità: il bar del paese, la scuola elementare, i contadini, i circoli, le contrade. E qui nasce lo stupore, vedendo come reagiscono e interagiscono i nostri ragazzi, pensando al punto dal quale siamo partiti e a dove si vorrebbero tenere. Vivendo questa realtà viva, ci accorgiamo che è possibile pensare l’impensabile e continuare ad osare l’impossibile, fino a non parlare più di queste persone attraverso le loro disabilità o i loro minus con il solito refrain: i nostri figli non possono lavorare, i nostri figli non hanno amici, i nostri figli non possono ambire a una vita indipendente.
Ma quando qualche settimana fa sono andato a cena alla casetta di legno degli Ortolani Coraggiosi di Ventignano con gli amici di mio figlio, quelli che lavorano con lui, e con le loro famiglie, abbiamo potuto vedere chiaramente che cosa succede, più di quanto non accada quando andiamo a trovarli mentre lavorano. Ma ci pensate, noi genitori di persone autistiche, a cena con gli amici di nostro figlio! Eravamo una trentina di persone. Una casetta affollatissima, quindi, e anche vociante e piena di allegria. Ognuno di noi era a proprio agio. Nessun comportamento è stato “problematico”. Ogni disabilità abbattuta per una sera. Tutto si è svolto in assoluta normalità. Ecco l’intreccio della vita, ecco il precedere le difficoltà e fare in modo che si riducano, ecco il lavorare perché ognuno abbia una possibilità.
Naturalmente questo percorso si realizza fra mille difficoltà gestionali, organizzative e di… bilancio e contro forze che diciamo non favoriscono la nostra crescita. Il percorso, però, va comunque avanti e queste forze “contrarie” riescono solo, nel peggiore dei casi, ad oggi, a farci perdere tempo, perché la strada è tracciata.
La spinta formidabile impressa all’inizio di questo percorso dalle Associazioni, dai genitori, dalla voglia di vivere dei ragazzi, ha creato un’energia che si alimenta in maniera autonoma nei cuori e nelle menti delle persone, che spinge avanti il progetto così forte, che talvolta riesce perfino a sorprenderci.
La nostra convinzione è che la disabilità appartenga a tutti, non possa essere concentrata e separata. È irrinunciabile continuare a lavorare per costruire casa, lavoro, ricreazione nei contesti sociali, con una visione estesa a tutte le disabilità e le diversità, convinti che queste siano una ricchezza per tutti. Pensare di adattare le nostre città, le nostre aziende, le nostre scuole, le nostre vite, a chi ha qualche difficoltà in più, è complesso, faticoso, ma i risultati sono stati e saranno straordinariamente migliori: una scuola capace di accogliere lo studente disabile sarà sicuramente di ottimo livello anche per gli altri e i ragazzi cresciuti conoscendo anche le stranezze e difficoltà dei compagni saranno più capaci di altri nel lavoro e nella vita. Lavorando troveranno posto nella propria comunità, ognuno secondo le proprie possibilità, ognuno con il proprio modo di essere, spesso strano o molto strano. Ma strano è soltanto ciò che non conosciamo e ci fa paura e separare da noi queste stranezze non aiuterà i nostri figli ad essere più forti, ad essere accoglienti con le persone in difficoltà, ma nemmeno a saper accettare i propri difetti e difficoltà. Queste saranno le conseguenze, se i ragazzi e le persone con disabilità saranno rinchiusi in un luogo lontano dalla città, dal paese, senza possibilità di interazione con i coetanei, con la comunità.
Da qui provare ad immaginare e a realizzare piccoli alloggi, come ne stanno nascendo in Toscana e in altre parti del nostro Paese, per dare una casa, protetta, assistita, secondo il bisogno, ma accanto a noi, vicino al posto di lavoro. Costruire casa, lavoro, ricreazione nei contesti sociali: questo dobbiamo continuare a fare convinti, che queste siano una ricchezza per tutti.
L’istituto nega i diritti umani delle persone perché le priva di identità, toglie le relazioni sociali, allontana gli affetti, rende inesigibile il diritto al lavoro, spesso anche il diritto alla cura e mette addosso uno stigma inalienabile.
L’istituto illude la comunità di togliersi il fardello della disabilità dalla vista, di non fare i conti con il disagio che genera la diversità, di alleggerire così la coscienza e allontanare la paura riflessa delle proprie debolezze, ma al contrario la stessa collettività si priva del grande patrimonio della diversità che è vita.
Ma poi quelli che fanno progetti alternativi alla vita ci dicono «che pensano a noi», ci dicono «che siamo al centro», che «abbiamo diritto ad un piano personalizzato, ad un progetto individualizzato». Ci dicono anche che non ci vogliono mettere in un istituto, «non è un istituto, sono tre moduli separati e non c’è la recinzione». Grazie per avere specificato della recinzione e dei moduli! Chissà come sarà bello dire «vado a vivere in un modulo» e se avrò la fortuna di fare un piccolo lavoro, chissà come sarà bello dire «la sera torno al mio modulo».
Ci dicono tutto questo e noi continuiamo a pensare all’impossibile: un lavoro anche protetto, una casa anche assistita, una comunità che mi riconosce, un bar dove sanno cosa voglio anche se non parlo, una piazza che se mi perdo mi aiutano. Pensare all’impossibile e sognare la luna per noi è vitale. Come è vitale non avere i piedi per terra. Dobbiamo sognare e continuare a puntare all’impossibile: solo così potremo ottenere l’ordinario per noi e per i nostri figli.
*Si chiamava Autismo e lavoro agricolo, ma è ormai noto come progetto degli Ortolani Coraggiosi di Ventignano, l’iniziativa cui collaborano la Cooperativa Sociale Agricola Sinergic@ e le Associazioni Autismo Toscana e Autismo Casa di Ventignano, con l’obiettivo di sviluppare percorsi lavorativi di tipo agricolo per persone con autismo.