È stato presentato a Napoli, presso l’Università Suor Orsola Benincasa, l’interessante progetto editoriale legato alla nuova rivista «Minority Reports – Cultural Disability Studies», nel corso di un incontro introdotto da Lucio d’Alessandro, rettore dell’Ateneo ospitante e da Enricomaria Corbi, che nello stesso è preside della Facoltà di Scienze della Formazione.
Vi hanno partecipato Giampiero Griffo, membro del Consiglio Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International) e Ciro Tarantino dell’Università della Calabria, componenti, insieme a d’Alessandro, della Direzione Editoriale della testata.
Sono intervenuti inoltre Roberta Gaeta, assessore al Welfare del Comune di Napoli, Giulietta Chieffo, che sempre nel Comune di Napoli è direttore centrale del Welfare e dei Servizi Educativi, Lucia Fortini, assessore alle Politiche Sociali della Regione Campania e Pietro Barbieri, portavoce del Forum Nazionale del Terzo Settore.
Come avevamo spiegato già qualche settimana fa, «Minority Reports» – pubblicata da Mimesis/Suor Orsola University Press e il cui nome si ispira esplicitamente racconto di fantascienza Minority Report, pubblicato nel 1956 da Philip K. Dick, da cui Steven Spielberg ha liberamente tratto nel 2002 un noto film – ha carattere internazionale e mette al centro il punto di vista di fasce di cittadini discriminati e senza pari opportunità. Essa nasce presso il CeRC (Centre for Governmentality and Disability Studies “Robert Castel”) dell’Università napoletana Suor Orsola Benincasa, struttura diretta dai citati Tarantino e Griffo, e il primo numero di essa, che ha per tema la presa di parola, è dedicato a «Franco Bomprezzi, ruotante», ovvero a colui che avrebbe dovuto esserne il direttore.
Ne abbiamo parlato con il professor Ciro Tarantino.
Come e da dove nasce questo nuovo progetto editoriale?
«“Minority Reports” è uno strumento editoriale di cui si è dotato il nostro Centre for Governmentality and Disability Studies “Robert Castel”, per avere uno spazio di discussione dai ritmi regolari, ma non compresso in un settore disciplinare unico e specifico. Oggi, infatti, l’Università predica prevalentemente una ricerca interdisciplinare, ma pratica una ricerca dai confini disciplinari blindati. Nei nostri auspici “Minority Reports” non dovrebbe essere né interdisciplinare, né transdisciplinare; ci piacerebbe fosse votata all’indisciplina, una rivista scientificamente “indisciplinare”.
Per quanto riguarda il Centro, esso è nato nell’ottobre del 2012 presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e pochi mesi dopo, nel marzo del 2013, è stato intitolato al sociologo Robert Castel allora scomparso, la cui opera e il cui metodo sono stati e sono di riferimento sia per me che per altri colleghi afferenti al Centro stesso.
All’epoca Giampiero Griffo mi aveva coinvolto nella costituzione dell’Ufficio per l’Inclusione Sociale delle Persone con Disabilità, presso il Comune di Napoli, esperienza entusiasmante per un certo tempo, che si è andata poi spegnendo, Assessore dopo Assessore. Lavorando alla progettazione delle politiche di inclusione, abbiamo progressivamente ma rapidamente sviluppato una manifesta insofferenza alla cronica mancanza di dati e alle letture “fossili” dei fenomeni di discriminazione, fondate su letterature scientifiche immobili e ripetitive. Abbiamo così, con molta incoscienza, fondato il Centro, per avere un luogo in cui far confluire saperi diversi e in cui ragionare, in maniera trasversale, non sulla disabilità, ma sulle pratiche di “disabilitazione sociale”, sulle forme e sui modi, cioè, in cui le società organizzano e strutturano l’incapacitazione di alcune persone. Poco dopo, grazie al riconoscimento internazionale e alla determinazione di Griffo, il Centro è diventato il rappresentante italiano nell’ANED (Academic Network of European Disability Experts), organismo istituito dalla Commissione Europea con compiti di supporto alla programmazione politica. In questo quadro, la rivista serve essenzialmente a saggiare linee di ricerca e a porre un ordine di priorità ai temi».
Come si collega il nome scelto per la testata a Minority Report, racconto di fantascienza di Philip K. Dick e al film di Steven Spielberg che ne è stato liberamente tratto?
«La testata si richiama esplicitamente al racconto che Philip K. Dick pubblicò nel gennaio del 1956 su “Fantastic Universe”, per una serie di ragioni che i curiosi potranno trovare esplicitate nella breve Presentazione del primo numero [intitolata significativamente “Una sintassi per il grido”, N.d.R.], che si rende disponibile ai Lettori di “Superando.it” [cliccare qui, N.d.R.]. La testata nulla deve invece al film che Spielberg nel 2002 ha tratto dal racconto, film che mi pare non abbia per nulla colto il realismo fantastico dello scritto di Dick, il suo trasporre in forma fantastica questioni concrete e urticanti».
Il tema del primo numero è Presa di parola, vale a dire?
«Sì, il primo numero è dedicato alla Presa di parola, che è certo l’annuncio della nostra piccola presa di parola come rivista, ma è soprattutto un modo per iniziare a riflettere su come e a quali condizioni si prende effettivamente la parola, e sul quando e in che modo la parola emarginata può esercitare una qualche influenza, manifestare una certa efficacia.
In fondo, della disabilità si parla in continuazione e in innumerevoli luoghi, per esempio in un’infinita consultazione istituzionale che pure metodicamente non tiene conto di questa parola. La parola delle Associazioni, infatti, viene continuamente sollecitata, istigata, esibita dalle Istituzioni e contemporaneamente ignorata, squalificata, disattesa. Nel primo numero, abbiamo allora ricostruito alcuni quadri teorici della presa di parola e alcune specifiche prese di parola, come quella di alcuni esponenti dei movimenti italiani per i diritti delle persone con disabilità, quella degli User and Survivor dei servizi di assistenza inglesi e francesi, quella matematica e internata di John Nash e quella “d’acciaio” di Rosanna Benzi, che dal suo polmone dava voce e vita all’esperienza della rivista “Gli Altri”. Che cosa abbiamo inteso con presa di parola si può per altro leggere ampiamente nel mio Editoriale al primo numero, reso anch’esso disponibile integralmente ai Lettori di “Superando.it” [cliccare qui, N.d.R.]».
Qual è e quale sarà il contributo diretto delle persone con disabilità alla rivista?
«La rivista, così come il Centro “Robert Castel”, sono il primo esperimento europeo a mia conoscenza dove tutte le strutture direttive sono composte paritariamente da ricercatori universitari e persone con disabilità impegnate nei movimenti per i diritti e lo stesso vale per il Comitato Scientifico.
Su questo punto, però, vorrei essere molto chiaro: non si tratta di riservare “quote H”. La situazione di disabilità di per sé non è garanzia di capacità analitica, come l’appartenere alla comunità rom non è in sé sufficiente a individuare le logiche dell’antiziganismo, e così per tutte le forme di esclusione. Direi che la partizione fondamentale non è fra persone con e senza disabilità, ma nella competenza sviluppata nell’analisi dei dispositivi di discriminazione. Come una società definisce che cosa è disabilità, come la disabilità è classificata e perché, chi è disabile rispetto a chi, per me non sono un dato di partenza, ma questioni da indagare, costruzioni sociali da analizzare e non dati oggettivi. Al limite, direi, che comprendere che cosa in un certo momento storico è catalogato come disabilità mi interessa solo per capire in una data epoca “contro chi si è normali”. In questo senso, non sono interessato al lavoro con chi si riconosce in percentili di invalidità, ma con chi fa diretta esperienza dei dispositivi di discriminazione e, in qualsiasi modo, può dare un contributo alla loro decifrazione.
La struttura paritaria di Centro e rivista nasce allora dall’esigenza di ascoltare con attenzione la parola di chi quotidianamente fa esperienza di una cittadinanza minore a causa della forma del proprio corpo o della struttura del proprio ragionamento. È una questione di esperienza diretta e di capacità analitica dell’esperienza. Si tratta dell’imprescindibile necessità di fare ricerca, a partire dall’esperienza tecnica degli individui su cui si esercitano gli effetti di potere».
Ma in «Minority Reports» non si parlerà solo di diritti umani delle persone con disabilità in senso stretto, è così?
«La rivista intende indagare la meccanica delle incapacitazioni e le forme di resistenza ed emancipazione. In questa logica, i diritti sono una variabile – certamente fondamentale – ma una variabile in dispositivi complessi e articolati di emarginazione, discriminazione e spesso segregazione. Le norme e le regolamentazioni non ci interessano di per sé. Direi che per noi i codici culturali vengono prima dei codici giuridici. Ci interessa allora l’analisi dei codici fondamentali di una cultura, quelli che definiscono gli ordini percettivi e discorsivi, i modi di vedere e ragionare: i princìpi di visione e divisione di una società, quei sistemi di pensiero che strutturano e ristrutturano continuamente la relazione fra il Noi e il non-Noi, fra il Medesimo e l’Altro. È un lavoro più lento e necessariamente diverso da quello della lotta quotidiana per la dignità che svolgono le Associazioni, ma ritengo che possa fornire strumenti utili per pensare e agire, per intervenire in queste lotte».
Qualche anticipazione sui focus dei prossimi numeri?
«Il secondo numero sarà intitolato La guerra in carne ed ossa e affronterà la radicale modificazione dell’immaginario collettivo sulla disabilità prodotta dalla prima guerra mondiale.
Il terzo numero, poi, sarà dedicato al processo in corso di dismissione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG), evento culturalmente epocale nella ridefinizione dei rapporti con l’alterità, ridotto nel dibattito scientifico a puro tecnicismo e nel dibattito politico a una questione di natura igienico-sanitaria.
E ancora, un altro numero sarà intitolato Vizio di forma e servirà per ragionare su alcuni meccanismi che le società utilizzano per ripartire le forme corporee e le forme mentali in legittime e illegittime.
Vorremmo infine centrare un ulteriore numero sulle Guerre d’indipendenza, sulla raccolta cioè di una serie di esperienze di emancipazione particolarmente paradigmatiche e più volumi alla memoria della segregazione e alla memoria dei movimenti. Ma la rivista è essenzialmente un’esperienza di libertà, che programma, ma non teme gli scarti laterali, i ripensamenti, le correzioni ripetute e continue, le ipotesi impreviste. Per far questo, ci piacerebbe che le Associazioni ci proponessero con continuità temi di riflessione, esperienze, materiali, critiche».
Per informazioni sulla presentazione del 12 aprile a Napoli: minorityreports@unisob.na.it (Alessandra Straniero).