Vorrei proporre qualche riflessione in tutta franchezza sul Disegno di Legge riguardante il cosiddetto “dopo di noi” (Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare), approvato alla Camera e passato ora al Senato.
In primo luogo ritengo vada apprezzato l’impegno dei deputati, dell’onorevole Ileana Argentin in particolare, che si sono resi interpreti di un problema finora ignorato e sottovalutato, che ha scatenato tragedie familiari alle quali, in questi anni, si è reagito con inoperosa rassegnazione.
Questa Legge rappresenta una prima risposta, seppure parziale, a un problema drammatico. Un’emergenza sociale la cui soluzione definitiva sta nell’attivazione di una molteplicità di strumenti giuridici e di servizi sociali previsti dalla nostra legislazione, a cui però politici, amministratori e burocrati continuano a negare forza di legge e a considerarli blandi consigli, vacua opera letteraria.
Questa proposta enuclea dal contesto più generale dei molti diritti negati alle persone con disabilità, il problema specifico del “dopo di noi”, rimettendolo al centro del dibattito politico: c’erano altre strade? Forse sì! È una proposta perfetta? Certamente no! Questo però non giustifica l’attacco feroce e demolitore di alcune Associazioni che in questi anni hanno privilegiato, certo legittimamente, battaglie più vicine alla loro sensibilità e ai loro problemi.
Questa Legge riguarda, fra coloro che hanno il riconoscimento della condizione di gravità in base alla Legge 104/92, le persone che in età adulta restano a carico dei genitori, o sono confinate in strutture segreganti. Si tratta evidentemente di persone che hanno gravi problemi intellettivi e/o gravissimi problemi fisici, che non hanno possibilità di autodeterminarsi, che non hanno potuto e che non possono lavorare, che non possono ambire a una vita indipendente, che hanno bisogno di essere amorevolmente guidati e assistiti per compiere gli atti fondamentali della vita; ed è per queste ragioni che le famiglie, prive di alternative, nell’indifferenza generale, hanno continuato a prendersene cura fino allo stremo.
Noi avremmo voluto che anche altri si fossero battuti con noi in questi anni, affinché fosse garantita a queste persone una vita adulta fuori dalla famiglia e da quelle istituzioni segreganti, che ancora oggi sono l’unica risposta offerta dalle Istituzioni Pubbliche.
In questa fase pensiamo che sia comunque necessario abbandonare ideologismi di qualsiasi provenienza e colore, per concentrarsi sul miglioramento del testo, prima che venga definitivamente licenziato dal Senato.
Le famiglie sono coscienti che lo Stato non è nelle condizioni di assumersi in toto l’onere economico di un intervento che sia risolutivo. È evidente altresì la necessità che venga istituito un fondo specifico (il fatto che l’onorevole Argentin debba continuamente sottolineare questo concetto lascia intuire quale sia la natura di certe resistenze) ed è comunque necessario impostare e affrontare il problema in un’ottica diversa anche da parte delle famiglie.
Fino a tempi recenti l’idea che la persona con disabilità, soprattutto se intellettiva grave, finisse segregata in strutture totalizzanti, lontano dagli occhi del resto del mondo, era supinamente accettata, una cultura figlia della vetusta “Legge Crispi” [Regio Decreto n. 6.972 del 17 luglio 1890, cosiddetta “Legge Crispi” sulla giustizia sociale, N.d.R.], che per altro rispondeva al sentire di una società proletaria e contadina.
Le scorie di quella mentalità condizionano ancora la nostra cultura e quindi le Istituzioni. Il frutto di una miscela perversa di leggi che proclamano princìpi nobili e altisonanti, e producono regolamenti meschini e contorti, che le vanificano, è che, ad esempio nel Lazio, un ISEE di 13.000 euro [Indicatore della Situazione Economica Equivalente, N.d.R.] è sufficiente per escludere una persona con disabilità dal contributo pubblico al costo dei servizi ad essa destinati, non tenendo in alcun conto la totalità dei bisogni assistenziali e i costi relativi. Le famiglie sono spinte davanti a queste situazioni a diseredare il figlio disabile perché, anche in vista del “dopo di noi”, possa almeno fruire della pubblica assistenza.
Da tempo i genitori invocano norme giuridico-amministrative che consentano loro di assicurare un futuro dignitoso al figlio disabile destinandogli dei beni, ma con la garanzia che vengano finalizzati al suo benessere e magari a quello di altri disabili economicamente svantaggiati. La defiscalizzazione del trust*, prevista da questo Disegno di Legge, consente a chiunque, indipendentemente dall’entità del patrimonio, di utilizzare questo istituto a favore del proprio familiare con disabilità, sia con atto fra vivi che post mortem.
Questa Legge è un’occasione da non perdere! È necessario tuttavia introdurre alcuni concetti e accorgimenti che modifichino quegli aspetti che, forse non a torto, sembrano caratterizzarla come una “soluzione per benestanti”, trasformandola, al contrario, in uno strumento solidale e universalistico.
La modifica più importante da introdurre è riconoscere le previste agevolazioni tributarie, solo se l’atto istitutivo stabilisce che il patrimonio residuo venga destinato alla casa famiglia che ha ospitato il beneficiario del trust o venga comunque destinato a fini sociali (articolo 6, punto 3 h). In questo caso vanno riconosciute in favore di chi ha istituito il trust le stesse agevolazioni tributarie applicate a chi lo sostiene con erogazioni liberali o donazioni (articolo 6, punto 7).
Qualche considerazione, poi, a sostegno di questa proposta.
Innanzitutto essa segue l’impostazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, segnatamente ai criteri di non discriminazione: infatti, in questo modo viene protetto il diritto della persona con disabilità ad ereditare e a godere dei propri beni.
Essa, inoltre, finalizza il patrimonio residuo del trust a beneficio dell’«ambiente familiare/sociale» che si è preso cura della persona con disabilità beneficiaria del trust stesso, secondo una logica che ricalca ciò che avviene nella normalità familiare.
Il concetto ora presente nel Disegno di Legge, ovvero che il patrimonio residuo possa/debba rientrare in famiglia, obbedisce invece alla logica di un familismo ottocentesco, quello stesso che ha prodotto segregazione e brutale violazione dei diritti delle persone con disabilità. Non è un caso che l’interdizione, strumento giuridico impropriamente applicato alle persone con disabilità, avesse lo scopo di proteggere i patrimoni familiari e non di garantire la qualità di vita delle persone.
L’applicazione di un meccanismo come quello proposto, unitamente agli altri previsti nel Disegno di Legge, produrrebbe nel tempo l’accumulo di patrimoni che potrebbero permettere al sistema di autosostenersi. Avremmo, mutatis mutandis, reinventato le opere pie in versione laica e democratica che, non va dimenticato, sono state per secoli l’unica alternativa alla “Rupe Tarpea”.
*Istituto giuridico mutuato dall’ordinamento anglosassone, con cui una o più persone, i “disponenti” trasferiscono beni e diritti sotto la disponibilità del “trustee”, un tutore, che assume l’obbligo di amministrarli nell’interesse di un beneficiario, in questo caso la persona con disabilità.